sabato 23 novembre 2013

l'universo e io

Tempo fa, su queste pagine, scrissi che avrei tenuto un appuntamento seriale per parlare di autori che via via incontravo, conoscevo, scoprivo. Così non è stato. Pur mettendoci tutte le buone intenzioni, arrivo al punto che mi perdo. Negli ultimi due anni, dedicati sia alla sopravvivenza dello studio, sia a capire le reali direzioni, ho rallentato molto le mie personali ricerche. Indago di meno e quel che trovo metto da parte, nella speranza di riprenderlo quanto prima e approfondirlo. Il metodo si è trasformato in abitudine, l'abitudine in disordine.
L'ipad è pieno di note, ieri ne leggevo le prime e qualcuna mi sembrava addirittura scritta da qualcun'altro. I siti da rivisitare, le immagini salvate e da attribuire ad autori, le wish list di amazon, hanno raggiunto una cifra incredibile: è tutto in disordine, come i miei pensieri attuali. Puntavo a perdere il senso del controllo in fotografia, invece ho perso il senso dell'ordine. Magari è questa la strada giusta!
Il web in questo periodo mi sembra sempre più confacente all'immagine che ho dell'universo. Una distesa immensa ed infinita di un nulla vuoto, dove a precise coordinate corrispondono pianeti e soli e galassie. Alcuni magnifici, altri interessanti, molti senza vita. Ho ridotto molto questa esplorazione e vi giuro mi manca. Ad un principio di consapevolezza di quanto stia maturando la mia personale visione, affianco un impoverimento della visione generale, come se alzassi lo sguardo al cielo notturno e riuscissi a osservare solo una luna brillante e il resto del firmamento mi fosse censurato.

Non scatto foto mie da un pezzo, altro vuoto giornaliero.

Una soluzione ci sarebbe! Esco un attimo, e se ho visto bene…

martedì 15 ottobre 2013

promo

Questo blog ha perso un po' di smalto, non lo curo come dovrei.
Elenco qualche giustificazione per mettermi a parte con la coscienza, voi mi perdonate e non ne parliamo più!

- il lavoro mi tiene impegnato, la sua ricerca intendo
- ho aperto lo studio nuovo e le cose da fare sono tante
- sto pensando seriamente al mio futuro
- vado in depressione a giorni alterni e nei giorni allegri mi scordo la password del blog
- devo decidere di mandare una parte di me 'affanculo e tentenno in continuazione
- tutto quello che mi è successo in questi mesi è molto intimo e non è il caso condividerlo

Bene!

Da qualche mese, grazie alla mia cara Tina, ho incontrato Alessandro Cirillo. Alessandro è un fotografo di Bari, so ancora poco di lui ma quello che so per certo è che con lui posso parlare di fotografia, ha una grande cultura, è bravo e insegna molto bene. L'ho invitato a tenere dei corsi di fotografia nel mio studio e a lui l'idea è piaciuta. Partiranno il 26 ottobre, uno di fotografia base e uno di avanzato: 12 incontri per ciascun corso. Qui si può scaricare il programma completo dei corsi. I costi sono € 220,00 per quello base e € 290,00 per quello avanzato. Per chi è in zona e ha motivo di partecipare, suggerisco di iscriversi e conoscere Alessandro, sa davverò un sacco di cose!

venerdì 12 luglio 2013

non fotografare...

Riporto quanto scritto in quarta di copertina di questo libro, scritto da Ando Gilardi e Pino Bertelli; non li conoscevo fino a prima di comprare il libro. I soli testi di copertina valgono la lettura di tutto il libro.


Non fotografare gli straccioni, i senza lavoro, gli affamati.
Non fotografare le prostitute, i mendicanti sui gradini delle chiese, i pensionati sulle panchine che aspettano la morte come un treno nella notte.
Non fotografare i neri umiliati, i giovani vittime della droga, gli alcolizzati che dormono i loro orrobili sogni. La società gli ha già preso tutto, non prendergli anche la fotografia.
Non fotografare chi ha le manette hai polsi, quelli messi con le spalle al muro, quelli con le braccia alzate, perché non possono respingerti.
Non fotografare il suicida, l'omicida e la sua vittima.
Non fotografarel'imputato dietro le sbarre, chi entra o esce di prigione, il condannato che va verso il patibolo.

Non fotografare il carcieriere, il giudice e nessuno che indossi una toga o una divisa. Hanno già sopportato la violenza, non aggiungere la tua. Loro debbono usare la violenza tu puoi farne a meno.
Non fotografare il malato di mente, il paralitico, i gobbi e gli storpi. Lascia in pace chi arranca con le stampelle e chi si ostina a salutare militarmente con l'eroico moncherino.
Non ritrarre un uomo, solo perché la sua testa è troppo grossa, o troppo piccola, o in qualche modo deforme. 
Non perseguitare con il flash la ragazza sfigurata dall'incidente, la vecchia mascherata dalle rughe, l'attrice imbruttita dal tempo. Per loro gli specchi sono un incubo, non aggiungervi le tue fotografie.
Non fotografare la madre dell'assassino e nemmeno quella delle sue vittime.

Non fotografare i figli di chi ha ucciso l'amante, e nemmeno gli orfani dell'amante.
Non fotografare chi subì ingiuria: la ragazza violentata, il bambino percosso. Le peggiori infamie fotografiche si commettono in nome del "dirittio all'informazione". Se è davvero l'umana solidarietà che ti conduce a visitare l'ospizio dei vecchi, il manicomio, il carcere, provalo lasciando a casa la macchina fotografica.

Come giudicheremmo un pittore in costume bohemienne seduto con pennelli, tavolozza e cavalletto a fare un bel quadro davanti allla gabbia di un condannato all'ergastolo, all'impiccato che dondola, alla puttana che trema di freddo, a un corpo lacerato che affiora dalle rovine? Perché presumi che il costume da free-lance, una borsa di accessori, tre macchine appese al collo un flash sparato in faccia, possano giustificarti?

martedì 9 luglio 2013

ancora Corigliano

Dalle cose ci si distacca. Non sei sempre tu a deciderlo e meno male, vuol dire che sotto pelle qualcosa lavora anche quando pensi di essere in pausa.
Non ho motivo ora, e ancora, di fare bilanci, eppure un confronto con quanto sia cambiato io negli ultimi quattro anni mi sembra normale. Il mondo non cambia, come dicevo qualche giorno fa a …, semmai noi cambiamo nel mondo! tutte le frenesie iniziali sulla fotografia, vedi la ricerca del genere, l'edonismo dell'autocompiacimento, l'accanito inserirsi nei privé mediatici della fotografia, quel virale (finto) bisogno di instaurare un legame col proprio modello, ed ancora la malsana linea guida progettuale come pure il senso puramente consumistico ed estetico dell'immagine, tutto questo, tutto l'essere legati alla fotografia in senso amatoriale, se ne sta andando. Non mi hanno offerto nulla di successo, sia chiaro, resto ancora nei miei spazi quotidiani…

Ancora una volta Corigliano e il suo festival di "quelli che la fotografia" ha voluto giocare un ruolo chiaro sulle mie fantastiche allucinazioni.
Di diverso o nuovo anzitutto il mio approccio. Il castello, le sale, la scalinata, l'atrio, non mi hanno emozionato. Ho salutato poche persone, quelle a tiro. Mentre ero li mi è venuta voglia di non essere li a fare quello per cui ci ero andato, avrei preferito essere in una oziosa vacanza. E la sola ragione che mi ha spinto a sedermi su una sedia difronte alla stessa persona di un anno prima è stata: perché no?
Di Denis Curti ammiro la capacità di parlare di fotografia mettendoci dentro anche le tue fotografie senza farsene accorgere. È questa è una cosa straordinaria, sul serio! Ti apre una finestra, ti mostra lo spettacolo fuori, e tu capisci dove ti trovi in quello spettacolo, che ruolo giochi.  Poi come se niente fosse ti può dire che sta aspettando di vedere un giorno davanti a se la grande bellezza, e non puoi che essere d'accordo, perché infondo almeno un comune denominatore nelle speranze di tutti noi solitari, eroici, ammalati artisti c'è: ritrovarsela  davanti, la grande bellezza.

domenica 16 giugno 2013

castrazione, censura, divieto

Nell'arco di poco tempo le ho vissute, direttamente e di riflesso, tutte e tre.
La più grave ritengo sia la castrazione. Come si spiega in Inception, un'idea è un seme che si insinua, non sospetto, e cresce giorno dopo giorno, arrivando a manifestarsi compiuto o definito ed è lì che poi dichiariamo: ho un'idea! Per idea qui intendo l'eccezione generalizzata, un progetto, una foto, un percorso, un'opera, un traguardo, e così via. Questa dell'origine è una faccenda che mi intriga, eccita e incuriosisce ogni volta che mi si pone davanti. Da dove parte il mio tutto l'ho intravisto un paio di anni fa e in queste pagine l'ho raccontato dopo l'esperienza con Benedusi a Corigliano. Nell'ultimo anno, provocato anche da forzature, ho potuto analizzare meglio alcuni dei miei aspetti inconsci, scoprendo brutture ma anche meraviglie, e le brutture guarda caso erano il caprio espiatorio del mio fare fotografico. Detto meno misteriosamente come mio solito, i traumi, da qualunque tempo passato arrivino, sono la matrice di ogni idea e atto creativo. L'atto creativo in sé è il riscatto da quel trauma, una sorta di liberazione postuma che si attua ripetutamente quanto grave è o può essere il personale trauma. Se si libera - attraverso l'idea - quel congegno ad orologeria che usura dall'interno, il nostro presente si alleggerisce (scusate sto ancora leggendo storie sufi). Non è un caso e ritengo sia comune, quel senso di vuoto o defaticamento a chiusura di un progetto - qui intendo artistico - Essersi liberato di quei mostri restituisce un vago e piacevole senso di momentaneo annientamento; un coito supremo.
L'idea è in noi, e va partorita!
Quando un paio di anni fa chiesi di poter fare il ritratto ad una persona, lei mi disse che era d'accordo, solo voleva aspettare di essere più in forma. La risposta mi suscitò stranezza, tanto che dovetti spiegare che se esiste un tempo giusto per attuare l'opera, questo è dettato dall'artista e non dal modello. Il modello può essere pronto o non esserlo mai, ma ciò che coglie l'autore in un determinato momento - ispirazione, idea, luce giusta, allineamento dei pianeti - non è posticipabile. L'attimo di Bresson! Se è il modello a chiedere di essere ritratto, sarà sempre l'autore a decidere il quando. Quel ritratto non lo feci più, non come io intendevo almeno o cosa speravo di aver visto in quella persona. Quando recentemente mi si è ripetuta una situazione simile, lo stato delicato della vita della persona in questione l'ha spinta - trattandosi di nudo - a specificarmi che acconsentiva a farsi ritrarre ma che non mi era concesso poi mostrare a nessuno la foto. Ecco la castrazione! I pianeti sono finalmente allineati (autore-modello-intesa) e una variabile esterna rovina sul nascere una singolarità. Tanto vale ribadire che - a mio avviso -  una foto creata e che non puoi mostrare a nessuno è una foto che non esiste.  Castrare un atto creativo è la più tremenda delle pene inflitte ad un artista e dovrebbe essere riconosciuto come atto di violenza. Dietro un'idea ci sono anni, pensieri, esperienze, scelte. Come è possibile dissolvere tutto questo con un no! senza prima aver riflettuto o ascoltato?
Diversamente, ma meno grave, è la censura. L'atto creativo è stato compiuto. Quella liberazione egoistica (traumatica) ha avuto il suo essere. La censura qui non opera come privazione del nascere ma come negazione al perpetuarsi nel tempo. Sulla fotografia… Realizzo una immagine, magari il ritratto di una anoressica mia amica. La foto è tanto pregna del mio desiderio di mostrare quell'autodistruzione a chi voglio bene quanto potenzialmente monito per altre, che la mia stessa amica/modella ne riconosce la gravità e la verità. Spaventata, quindi, chiede di non mostrarla, o fare in modo di non rendere riconoscibile il volto. La censura dunque altera l'idea di partenza. Non ho pensato ad una foto con la stringa nera sul volto o a qualsiasi altro metodo di mascheratura. Perché sono obbligato a farlo? Ciò che io intendo con la foto della mia amica è la foto della mia amica. Punto! Ogni alterazione non decisa da me è un intervento semantico che crea un nuovo diverso. Mi imbatto in questi momenti proprio su articoli trovati in rete sul ritorno massiccio della censura nei confronti dell'arte o dell'informazione, qui e qui alcuni esempi…
Ma se per la castrazione si presuppone un motivo culturale, per la censura quello morale, allora sul divieto la questione è tutta sociale - per non dire politica, visto i tempi.
Abbiamo qui il maggior numero di restrizioni per quanto riguarda la ripresa foto/videografica. Il crescente aumento di questi divieti ci ha assuefatti all'idea che non si può più fare foto in un determinato posto o a determinate cose. Dilaga una latente ignoranza sia fra gli operatori che fra i non addetti, e sarebbe bene che i primi fossero più attenti e consci dei loro diritti. Sono pressoché stufo di dover replicare a chi mi guarda storto perché ho una reflex e voglio fotografare un accidenti di palazzo. Cosa assurda, le compattine e gli smartphone dei turisti sembrano non rientrare nella lista dei potenziali nemici pubblici. Ma forse c'è chi da mente astuta attua il migliore dei progetti dittatoriali alla cultura: creo il divieto, ti castro all'origine!

giovedì 30 maggio 2013

il fine e il mezzo

Forse ne avevo già parlato, solo che molte cose non mi erano chiare o non ci arrivavo. Ai piccoli non puoi dire tutto e pretendere che capiscano; se anche provi a usare parole semplici, quelli potrebbero restituirti una faccia d'incomprensione totale.
Il domanda è: la fotografia è (per voi, per me) un fine o un mezzo?
Credere che la mia fosse il mezzo per dire qualcosa di me mi ha accompagnato fino all'altro ieri. La faccenda era, o sembrava, molto semplice: voglio comunicare questo, raccontare quest'altro e, al limite, dimostrare anche questo. Bene. Ci sta, se si è convinti. Solo che a me i dubbi persistono se l' istinto mi tamburella fastidiosamente a suggerire che non deve essere del tutto così. E io del mio istinto mi fido. Scendo nel pratico, perché sono ancora confuso e devo fare degli esempi, e magari ricevere risposte di aiuto.
Qualche settimana fa Tina M. mi ha coinvolto in un progetto nato qualche anno fa e che si ripete annualmente. Un gruppo di circa cinquanta persone che lavorano per un istituto bancario, decidono di mettere a disposizione la loro passione artistica, musicale, recitativa, danzante, per allestire uno spettacolo imponente per raccogliere fondi. Va bene può sembrare la solita operazione di "mi metto a posto la coscienza e faccio beneficenza", ma non è questo che mi preme riportare qui. Quest'anno i fondi sono destinati a  costruire un nuovo reparto di oncologia in un ospedale di Bari. Grazie a Tina, al suo approccio e alla sua rete di conoscenze - è impiegata per l'istituto e fa foto eccezionali, ha una progettualità fotografica intelligente e invidiabile  - ,  siamo stati entrambi ricevuti per documentare il clima di un reparto oncologico durante le sedute di chemioterapia. Ho vissuto personalmente un approccio emotivo simile a quello provato entrando nel carcere di Trani per documentare un progetto di teatro, questa volta però la sensazione di disagio era fortemente amplificata. Abbiamo deciso di evitare più possibile la patetica registrazione della sofferenza e concentrarci sulla dignità e umanizzazione del reparto. Le foto che abbiamo scattato, diverse per visione e approcci, con l'intento iniziale di essere proiettate per il pubblico dello spettacolo, sono diventate un progetto definito: Hopelogia. Le abbiamo selezionate e racchiuse in una dozzina di dittici, sorprendentemente affini e pur indistinguibili per mano. Tina conosce molto bene il clima degli ospedali e la sua innata sensibilità femminile, la sua visione femminile, mi ha obbligato a riconsiderare e rimettere in gioco quei dubbi già persistenti. Non stavo più parlando di me, delle mie fisime mentali, non era più un rendere pubblico, con la fotografia, uno stato privato, il mio. Quello che si era fatto era riportare per immagini fotografiche una realtà a molti sconosciuta. La nostra scelta, la nostra forzatura - e sono d'accordo - sta nelle inquadrature, negli accostamenti dei dittici, nella sottolineatura della dignità e della pazienza e del silenzio che ci premeva evidenziare. Forse per la prima volta mi sono sentito esclusivamente, serenamente una parte integrante del mezzo fotografico. Tutta la mia produzione fino a ieri invece mi rende protagonista, io padrone del mezzo.

Senza scomodare i papà e i maestri blasonati del reportage, ieri mi sono imbattuto in un libro: Ermanno Rea "1960 io reporter". Ermanno Rea io non lo conosco ma il suo libro presto lo compro. Mi è bastato sfogliare qualche pagina, ma soprattutto leggere qualche passo per capire il senso del suo lavoro. E tutto questo è bellissimo. Quando ad un certo punto ti svincoli da te stesso e diventi un ingranaggio fondamentale di quello che il mondo potrebbe conoscere ti senti libero. Ermanno Rea scrive che "la Leica mi ha salvato la vita" (la macchina non l'azienda), ciò mi fa pensare che la libertà acquisita con il sentimento del raccontare e parlare dello sconosciuto fa anche bene alla sopravvivenza. Qualche settimana fa, nelle Lectio Magistralis che sta organizzando la AFIP, lo diceva Oliviero Toscani: "imprigionatevi in un progetto, non c'è nulla di più bello e dal sapore di libertà che incatenarsi ad un progetto".  e sempre negli incontri del AFIP, L'oratoria di Giorgio Lotti mi ha commosso per il suo eccesso di umiltà.
Dire di noi, scrivere di noi, fotografare di noi è stupendo se ci può far guarire, crescere, rafforzare. Ma una volta fuori da questo abbiamo l'obbligo di trasformarci: non siamo più il fine del nostro agire. Siamo il mezzo.

giovedì 2 maggio 2013

il capezzolo duro


Il passaggio dalla pubertà all'adolescenza fu segnato per me da episodi di trasformazione del mio corpo che mi turbarono e intrigarono allo stesso tempo.
Il più clamoroso fu quello che io chiamai "la pallina dura".
Di punto in bianco mi ritrovai sotto la pelle, zona capezzoli, un qualcosa che io percepivo tondo come una pallina e dalla consistenza durissima. La cosa mi fece sorridere per qualche secondo, un'anomalia divertente quella mattina era gradita. Salvo ricredermi poco dopo, quando presi a sfregare tra pollice e indice quel brufolo gigante. Provai un dolore acuto, nuovissimo. Di riflesso ritrassi la mano come scottato o preda di una  breve scarica elettrica. Prova del nove, tanto per conferma. Ancora dolore. Ma che c…?
A farla breve, per qualche settimana mi sono arrovellato su quanto stava accadendo, partito prima sul lato sinistro e poi su entrambi i capezzoli. A riferirlo ai miei neanche a parlarne: vergogna, imbarazzo, paura, stupidità. L'elenco completo! Mi feci coraggio e lo confidai al mio amico di banco. Mi rincuorai sapendolo vittima della stessa malattia senza nome che da qualche giorno l'aveva colpito. Ne parlammo a lungo e trovammo da soli le risposte giuste. Anche quella vera.

Per quello che sto vivendo, come trasformazione, metamorfosi di vedute e argomenti, passaggio da un ciclo di esperienza fotografica all'altra, non ci sono "palline" di riferimento. Ma sta accadendo. Si è concluso un ciclo. Fino allo scorso anno ero attratto da progetti fotografici e realizzabili in un determinato modo. Niente di più attuabile ora se non condizionati dalle nuove risposte. Come per il periodo "pallina", la faccenda ha di che preoccuparmi per il timore di perdere delle idee che si manifestano ancora come "un bel progetto", e dall'altra mi eccita per questa nuova capacità di percezione della materia fotografica.
L'oggetto, o il soggetto, da inseguire resta immutato, ma il rito di fare l'amore di un ragazzino non è uguale a rito di un quarantenne (quasi! ndb): al primo di carezze, sguardi, intesa, pause non frega nulla; il secondo sa che la miglior performance è dedicarsi completamente al piacere della compagnia. Il primo impugna, mira, aspetta e spara. Il secondo incontra, osserva, si commuove e lascia che la fotografia lo avvolga.

domenica 28 aprile 2013

lo spazio bianco

Mi piacciono i cambiamenti, i traslochi, ridisporre i mobili in nuove versioni, le trasformazioni in genere. Mi piace! Ritengo che sia per due ragioni: la prima per un fatto para-pratico, mi da la possibilità di nuove vedute, mi incuriosisce e stimola. Per conseguenza, la seconda ragione, sta nel non farmi annoiare alla ripetivitá, a sbloccarmi dai miei stati pigri e muovermi in direzione del nuovo e diverso. Avevo deciso lo scorso anno che il prossimo passo sulla trasformazione sarebbe stato strutturale: un nuovo studio. Per i primi tre mesi mi sono diviso tra ricerca, sistemazione e allestimento del nuovo spazio. Da una settimana sono qui, e mi ci trovo davvero bene. Ha luce, molta, come io la voglio; ha spazio, che mi permette di lavorare comodamente. E funzione bene anche come piccola galleria, il che mi esalta come un criceto dopato. 
Seriamente: penso di ristabilire a breve una regolarità su questo blog. Più che altro per riportare cose che mi stanno interessando parecchio e che non mi dispiacerebbe approfondire. Intanto per chi voglia passare da me e disturbarmi mentre lavoro, o gli serve uno spazio-sala posa-esposizione, passate pure: ho bevande e chiacchiere da offrire da prendere vicino ai miei bonsai.

sabato 16 marzo 2013

demoni

e se tutto fosse esattamente il contrario di tutto ciò che hai creduto finora?
C'è da tremare. C'è da non riuscire più a muovere un passo e aspettare lì, dove sei, che qualcosa accada e ti riporti alla tua vecchia certezza, che le tuo ossa o le membra in qualche modo escano da quel torpore e si decidano a spostarti da quell'improvviso niente.
La forma non cambia. La sostanza si!
Ho visto scene da fotografare centinaia di volte e poi me ne sono stufato. Ho cercato nel mio paese la migliore composizione e mi sono annoiato. Ho concentrato tempo e investimenti sulla ricerca di uno stile: coerenza mai raggiunta. Ho progettato foto e idee dall'alto contenuto "artistico" salvo affondare ripetutamente nell'autofallimento - o autocommiserazione?
Tutto quello che mi riguarda di fotografia - conoscenze, letture, incontri, lavoro, entusiasmi, rinunce - interagisce giornalmente con il mio fisico. Impugno la macchina e i miei muscoli si attivano in un modo che solo quel gesto permette. La mia concentrazione durante lo scatto mi provoca rughe alla fronte e in mezzo agli occhi; assumo, pur non avendone sempre la certezza, delle vere facce da cazzo. Però, in quella porzione di tempo io sto fotografando. Sto in sostanza usando me stesso come mezzo per ottenere qualcosa che in teoria potrebbe sopravvivere alle mie rughe, alle mie facce, al mio corpo in tensione. Quel medium rigorosamente descritto.
E la forma sta tutta lì, in quel mio corpo, mutato e mutabile ma sempre riconoscibile come il mio.
La sostanza invece si evolve e cambia in tutte le mie cre-azioni. Non fotografo per diletto, non per lavoro, non per vincere concorsi o produrre arte e millantarmene. Fotografo per scacciare demoni. Si chiamano paura, mediocrità, riconoscimento, soddisfazione, autocentrismo, superbia e gloria.

...

giovedì 24 gennaio 2013

l'unicità

"Ci sono cose che nessuno vedrebbe se io non le fotografassi". E' una frase della Arbus, la trovo esatta, inopinabile. L'unicità con cui ognuno di noi posa lo sguardo sulle cose, sulle persone, sulla vita, ci rende testimoni prima e portatori dopo di immense biblioteche di immagini. Il database mondiale delle foto conta dei numeri pazzeschi e la stima di produzione annuale è scellerata. In un periodo lontano, quando internet, le nanotecnologie, le macchine ibride erano ancora il futuro, ero ragazzino e sognavo all'idea di una macchina fotografica al posto del mio occhio che registrasse tutto al mio comando. Molti anni dopo, in un numero del 2005 di AriaMagazine, leggo del progetto MyLifeBits. Quando è avvenuto il passaggio al futuro? Col salto nel nuovo millennio? Mi sono messo questa data convenzionale, per comodità personale. Quello che nell'ultimo periodo mi porta a riflettere su vicende personali e successivamente a canalizzare in pensieri fotografici l'argomento è: l'unicità. Cos'è unico? Un momento? una scena? un gesto? io? tu? Cosa?
Ho fatto il ritratto ad una persona, solo pochi giorni fa. La foto è stata la digestione normale di un pomeriggio di conoscenza; ho tirato fuori la macchina con la stessa abitudine del fumatore che si accende il vizio dopo un'ottimo pasto. Pochi click. Cosa è venuto fuori è silenzioso, pieno di grana e di luce al tugsteno. Tra le mie peggiori. Dall'altra parte invece mi arriva il sussurro di un "sono stupende". Cosa ho messo a fuoco? cos'ho inquadrato? Cosa hanno visto i miei occhi in quella porzione u-ni-ca di tempo? Vedo gli altri con la parte migliore di me ma poi li fotografo con la mia parte peggiore. E tuttavia è una foto, che nessuno vedrebbe se io non la facessi. Io sono unico, complessamente unico. Ossessionato dal ritratto.
C'è verità nel mio gesto, in ciò che dico e faccio, nel fotografare, ma la foto come materia finale non può essere verità, l'unica verità! Il cliché speculativo di alcuni miei pensieri continua a tormentarmi, senza soluzione. Ciò che ancora non risolvo non è più inerente le mie capacità, ma riguarda la sopravvivenza dell'oggetto foto. Ci sono cose che nessuno vedrebbe se io non le fotografassi, ma una volta fotograte, sono atti unici che meritano di vivere in una foto?