mercoledì 14 marzo 2012

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QUALCOSA D’ESTATE


Ad un tratto mi ricordai delle caramelle.

Mio padre le aveva prese dalla credenza - quella con i vetri colorati - la mattina, prima di uscire. Quell’azione così naturale, quella ricerca di qualcosa di semplice, come semplice è una caramella, mi colse di sorpresa. Era mio padre, in quel momento, ma perché pensare alle caramelle? Aveva ben altro per la testa. Poi una logica quasi meschina mi diede risposta e non fu affatto difficile lasciarlo andare via senza continuare in quella mia analisi: era mio padre, nel bene e nel male, nel tempo e per sempre.

Era accaduto qualche ora prima.

Non ero felice. Non ero triste. Neppure mi sentivo compreso in quella lista di stati d’animo che comprendono la malinconia, il rimpianto, la noia, la serenità o l’allegria. Svegliandomi, realizzai di essere infastidito da un pensiero scomodo e petulante. Era primo agosto: le vacanze non sarebbero durate molto ancora.

La voglia di alzarmi era scarsissima eppure l’odore del caffè proveniente dalla cucina mi fece capire che la colazione era pronta. Afferrai i pantaloni dalla sedia e l’infilai. La caffettiera era sul tavolo, come pure il pentolino del latte e il resto, ma la cucina era già bella e ordinata. Lei, mia madre, stava asciugando l’ultimo angolo del lavandino ed aveva una marcia in più rispetto al suo solito. Sedetti e versai nella tazza quella che sarebbe stata la colazione.

“Ha chiamato lo zio prima”, disse mamma laconica. Non si girò a guardarmi. Chiesi cosa volesse zio.

“Marina ci ha lasciato”, rispose. Fu fredda nel dirmelo. E paradossalmente quella freddezza mi scottò. I vapori del latte salirono al mio naso e mi riscaldarono il viso. Restai immobile, ad osservare il formarsi lento del velo di panna nella scodella. In quell’oblò pallido i miei ricordi di ragazzo disegnarono la faccia pulita di Marina. Ci ha lasciato, un modo meno diretto per dire è morta. È morta.

Pensai se per caso la circostanza richiedesse qualche frase da dire a mia madre, per associarmi ad un dolore che ancora non avevo imparato a conoscere. Poi capii che volevo starmene zitto. Volevo delle risposte senza domandare nulla. Sapere cosa sarebbe accaduto adesso. Sapere se la nonna era già stata avvisata. Sapere quale percentuale avrebbe avuto ora Marina nella mia vita. Ed ancora come comportarmi nelle restanti vacanze. Dovevo piangere se a un certo punto sentivo il desiderio incontrollabile di farlo?

Dopo quella notizia tutto si svolse come sempre in casa. Mi lavai la faccia ed i denti, indossai i vestiti comodi di tutti i giorni, accesi il computer, facendo zapping tra un gioco e l’altro e lasciando che il tempo scivolasse per inerzia. Erano davvero le stesse cose di sempre? Non mi ero lavato: dell’acqua mi era finita sulla faccia e non è la stessa cosa. Il computer non rappresentava quella mattina un’autentica distrazione. Mancava qualcosa. Una direzione? Mancava una lucida ripartizione dei pensieri, mancava la voglia, il registro di un ritmo, mancava una Marina, adesso.

…..

Ma se invece di mancare era qualcosa in più? Il silenzio inusuale di mia madre, ad esempio, la spirale dei ricordi su mia cugina, la maledetta voglia di prendermela con qualcuno. Tutto questo era naturale quanto legittimo. Si ma poi? Cosa c’è dopo uno sfogo di rabbia? Dopo un funerale? Dopo una cloaca di membra insanguinate chiamata ricordi? Dopo. Dopo un giorno? Due? Tre? Rimane tutto quello che è rimasto. Lo sapevo, intuito da ragazzino sveglio suppongo. Il segreto del vivere una vita serena sta tutto nel non rimanere quel pizzico di tempo in più a riflettere su se stessi nei casi della vita. Si perde l’attimo e tutto va avanti comunque. Mi venne questo pensiero quella mattina, di fronte ad un monitor e uno Shanghai che non riuscivo a risolvere.

Mio padre tornò verso mezzogiorno. Venne a cambiarsi la camicia e a lavarsi le mani e la faccia. Lo sentii entrare, ma se avevo avuto l’impulso ad alzarmi per andargli incontro, domandargli qualsiasi cosa, subitamente si spense e ricaddi sulla sedia. Li sentivo parlare. Mio padre raccontava di chi era arrivato a casa degli zii, i percorsi che aveva fatto per risolvere le faccende che sono di queste circostanze. Tutto questo non mi interessava. Finalmente riuscii ad andare in cucina. Loro erano là. Mio padre aveva finito di cambiarsi. Mi diede il buon giorno, come sempre. Non si accorse che l’abitudine va controllata. Sarà, ma risposi. Aveva voglia di parlarmi. Tutte le pieghe intorno ai suoi occhi si mossero e vidi che si tratteneva un male dentro. Desiderai gridargli di andarsene al più presto per non dovere sopportare di vederlo in quello stato. Mi accontentò. Si oscurò in corridoio aprendo la porta, poi rientrò in cucina prese le caramelle forti alla mente si girò e scomparve.

Ad un tratto mi ricordai delle caramelle.

L’aria viziata della stanza non riuscivo a sentirla: ero lì da molte ore. Sin dal primo pomeriggio avevamo abbandonato casa per sistemarci in quella degli zii e di Marina. Le famiglie si erano riunite. Fu la rimpatriata più triste che ricordavo, tanto diversa da quelle di quando ci si riuniva per i cenoni o per le ricorrenze allegre. Continuavo a pensare ai würstel, non quei piccoli ma quelli grandi, marchio indelebile di una Germania grassona, sempre presenti in queste occasioni, e l’insalata verde e riccia di quando in quelle sere c’erano i nonni e gli zii, i cugini e le sorelle e i fratelli, di me piccolissimo ancora, del non ne voglio più mamma per alzarmi da tavola e giocare con i miei cugini.

Un altro ricordo.

Fuori c’erano i lampioni accesi. Le ore in quella stanza avevano strisciato lentamente; non una dopo l’altra ma come se fosse stata un’unica ora dilatata. A quel punto della giornata la faccenda aveva preso una piega soporifera. Le chiacchiere dette a bassa voce da quei parenti che conoscevo e da altri mai visti prima erano lo specchio di una stanchezza controllata con sforzo. Non li ascoltavo, non ne avevo voglia, pure le parole entravano nella mia testa e quelle più grosse rimanevano intrappolate alla rete dei miei meccanismi di memoria come pesci. Tutte, però, erano immangiabili.

Ero stanco di stare seduto. Ero stanco di stare in piedi. La stanchezza ti stanca; voglio dire che ad un certo punto la incassi senza più reagire, ne fai una questione di sopravvivenza dove tu hai già perso da un sacco la tua chance di farcela.

Stavo appoggiato alla porta, adesso. In quell’improbabile sala d’attesa c’era la mia famiglia e due signore grasse e ben avviate ad essere vecchie. Più due tizi, un mio zio lontano e un anonimo. Otto in tutto con me. Una delle due donne aveva di che parlare su un certo Donato il salumiere. Si schiarì la voce e aprì una parentesi nel suo discorso per avvertire che era rimasta senza voce perché prima sono stata in corridoio e devo essermela presa proprio brutta quest’altra cosa ci voleva, bah!

Mio padre ne tirò fuori una. La caramella. Offrì la piccola scorta. Questa è l’ora dell’aperitivo, mi venne da pensare. Quando ne hai cinquanta di anni, come quelli di mio padre, lo sai quando è l’ora dell’aperitivo durante una veglia; hai imparato a dividere il tempo in parti più o meno uguali tra i momenti di tristezza e buonumore. Io non li avevo i suoi cinquanta e quindi non presi quelle sue maledette caramelle che ti fanno star bene la gola e ti rimettono apposto e ti danno il via per riprendere un’altra battuta su Donato il salumiere e ti portano tutto un altro cazzo di mondo e tempo che non è quello che è in quel momento.

Marina stava zitta. Non si muoveva. Aveva gli occhi nascosti dalle palpebre. Aveva due anni meno di me e fra qualche anno avrà un bel seno pure lei, se Dio vorrà, non quelle due piccole punte che adesso fanno anche una certa impressione. Me la stavo guardando per bene dopo essermene andato dalle caramelle. Era bella Marina. Tutte le bambine morte che non hanno avuto un incidente che le ha sfigurate sono belle. Lei sarebbe cresciuta nella mia testa. Le cugine si scopano per prime Avrebbe avuto un bel corpo. Le cugine si scopano per prime. Le areole scure come i suoi capelli. Le cugine si scopano per prime. Forse avrebbe avuto un fidanzato più in là. Le cugine si scopano per prime. Doveva portare poco trucco ma unghia smaltate. Le cugine si scopano per prime.

?!

Volevo darmi un cazzotto per lo schifo che stavo pensando. Associare la misericordia a certe visioni è come mettere il peperoncino su un’ostia consacrata. Ti verrebbe un erezione a pensare alla Madonna e questo è peccato mortale.

Piansero tutti quel giorno. Ognuno nelle necessarie dosi personali.

Io no.

Aspettai di vedere Marina negli ultimi istanti per farlo. Continuava a stare zitta e ferma e mi faceva una rabbia quella sua indifferenza al mio sfogo. La morte è solo dei vivi, pensai. Quelli non lo sanno mica che sono morti. Stanno lì e basta, o non stanno lì e basta. Da quest’altra parte si piange, si saluta, si mangiano caramelle, si parla di salumieri, si rievocano i würstel e tutto quanto il resto. Ai morti non è chiesto di piangere o ricordare. Noi restiamo e sono cazzi nostri adesso. Con tutto quello che ne consegue. Fra poco Marina sarebbe scomparsa e di me ancora non ne voleva sapere. Avrei potuto parlare tramite foto ricordo ma sai che bellezza, roba da barzelletta. Le cugine si scopano per prime. Questa volta lo pensai e lo desiderai assieme perché si può amare anche in modo non concettuale.

La chiusero.

La chiusero.

Un rituale di lacrime, che furono delle più pesanti che ricordassi, mi disubbidirono e tutti le videro. La colpa era di Marina. S’era organizzata il suo momento di gloria per deridermi al pubblico dei parenti. E non aveva mosso un dito. Fu che per dirgli Vaffanculo avrei dovuto gridare proprio forte. Tuttavia non mi avrebbe sentito. Marina. Però non era odio. Era una metafora per dire che Le cugine si scopano per prime ma ormai io sto qua e tu non stai da nessuna parte. Il tu sarei io.

Vaffanculo pensai e intanto volevo abbracciarla, stringerla.

Mi girai e trovai mio padre. Lui non era Marina ma era uguale se abbracciavo lui? Aveva l’alito di caramelle forti alla menta. Forse mi venne da ridere a quella scoperta. Una risata che sarebbe stata isterica a farla venire fuori.

Poi.

Poi rimase tutto quello che c’era da rimanere.

Le caramelle di mio padre poi.


P.s. La morte è solo dei vivi.



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Ieri ho riportato mio padre in ospedale. Solo da qualche giorno era a casa, dopo due mesi in clinica e un operazione al cuore. Ha preso a sputare sangue, di un rosso brillante, e non la smetteva più. Nelle ore trascorse al pronto soccorso, in attesa del ricovero, è riemerso il racconto sopra, scritto più di un decennio e mezzo fà e relativo ad un episodio realmente accadutomi. Mentre lo guardavo sul lettino, in una stanza illuminata a neon riempita di "urgenze", ho pensato due cose: non ho caramelle alla menta da offrire a questi signori. E non ti ho mai fatto il ritratto, papà.


1 commento:

  1. Se non avessi deciso di fare il fotografo avresti potuto scrivere, in ogni modo i tuoi ritratti sono dei pugni nello stomaco.....

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