ridimensionarmi o essere ridimensionato. La seconda porterebbe i cambiamenti più devastanti.
Sono lì, sul ciglio di un baratro a godermi lo spettacolo che ho di fronte ritardando, quasi non mi toccasse, l'attraversata. Sarò noioso ma uso ancora il teatro per i paragoni...
I laboratori che ti rivoltano, quelli dove te ne esci con le ossa rotte e poche lacrime perché le hai versate quasi tutte, hanno come prerogativa principale la ri-appropriazione e consapevolezza del proprio corpo. Come? Si chiama destrutturazione. Un regredire lento allo stato istintivo, primario, una visione di pura follia per chi osserva e non sa quello che sta accadendo. Per usare una metafora del cazzo è come togliere le parole da una pagina di libro, riportare allo stato vergine il foglio e, con la coscienza del significato di ogni parola, riscrivere una pagina migliore, diversa. La cosa più interessante sta nel ripetere l'operazione, di riscrittura, il numero di volte che ci aggrada alla sperimentazione, conoscere lo strumento corpo (il corpo è anche voce, ricordiamocelo!) e farlo esprimere al meglio di quanto gli è concesso con i propri limiti.
In Shine l'insegnante suggerisce: devi imparare Rachmaninov e scordartene, essere padrone della partitura tanto da non dovere pensare di fare lavoro di richiamo della memoria ma solo di esecuzione.
Quello che so di fotografia ha il sapore di nozioni tecniche, di accademico, con il disagio continuo di non interiorizzare ogni nuova lezione. Per assurdo, mi muovo per istinto ma è un istinto indisciplinato, superficiale, non regolato dall'auto-appredimento, in buona sostanza sopravvivenza. Pensavo di essere una spugna, con buona capcità di assorbimento, scopro invece con dispiacere di compattare e ammassare tutto il bagaglio (in)formativo in angoli della mente e spesso a dimenticarlo lì. L'operazione di recupero diventa sempre più faticosa e allarmante.
Facciamo finta per un istante che so di fotografia quell'abc necessaria che mi permette di muovermi a carponi nelle stanze di casa. Osservo intorno a me individui con un equilibrio diverso dal mio, bipedi allungati; io uso piccoli trucchi per non rovesciarmi da un'altezza minima oltretutto, e mi perdo la corsa, i salti, le cadute, la danza, il ritmo e la visione della postura eretta. Ci sono degli ostacoli che non oso ancora superare. Guardo in una direzione comoda mentre uno specchio velato di vapore continua ad infastidirmi ricordandomi cosa continuo a non voler vedere.
Sono ad un passo dalla destrutturazione fotografica; affrontare la visione sintetica e un po' puttana di una passione che ho eretto a difesa e virtù di un ego da confortare giornalmente in ragione di una onestà tagliente e diretta eppure liberalizzante.
Presto dovrò fare i conti con questo dubbio: continuare a fingere che la fotografia mi porterà nella direzione di scelte consapevoli incluso l'edonismo artistico, oppure essere sul percorso senza morbosamente ripetermi che figata che è la fotografia!
Sono lì, sul ciglio di un baratro a godermi lo spettacolo che ho di fronte ritardando, quasi non mi toccasse, l'attraversata. Sarò noioso ma uso ancora il teatro per i paragoni...
I laboratori che ti rivoltano, quelli dove te ne esci con le ossa rotte e poche lacrime perché le hai versate quasi tutte, hanno come prerogativa principale la ri-appropriazione e consapevolezza del proprio corpo. Come? Si chiama destrutturazione. Un regredire lento allo stato istintivo, primario, una visione di pura follia per chi osserva e non sa quello che sta accadendo. Per usare una metafora del cazzo è come togliere le parole da una pagina di libro, riportare allo stato vergine il foglio e, con la coscienza del significato di ogni parola, riscrivere una pagina migliore, diversa. La cosa più interessante sta nel ripetere l'operazione, di riscrittura, il numero di volte che ci aggrada alla sperimentazione, conoscere lo strumento corpo (il corpo è anche voce, ricordiamocelo!) e farlo esprimere al meglio di quanto gli è concesso con i propri limiti.
In Shine l'insegnante suggerisce: devi imparare Rachmaninov e scordartene, essere padrone della partitura tanto da non dovere pensare di fare lavoro di richiamo della memoria ma solo di esecuzione.
Quello che so di fotografia ha il sapore di nozioni tecniche, di accademico, con il disagio continuo di non interiorizzare ogni nuova lezione. Per assurdo, mi muovo per istinto ma è un istinto indisciplinato, superficiale, non regolato dall'auto-appredimento, in buona sostanza sopravvivenza. Pensavo di essere una spugna, con buona capcità di assorbimento, scopro invece con dispiacere di compattare e ammassare tutto il bagaglio (in)formativo in angoli della mente e spesso a dimenticarlo lì. L'operazione di recupero diventa sempre più faticosa e allarmante.
Facciamo finta per un istante che so di fotografia quell'abc necessaria che mi permette di muovermi a carponi nelle stanze di casa. Osservo intorno a me individui con un equilibrio diverso dal mio, bipedi allungati; io uso piccoli trucchi per non rovesciarmi da un'altezza minima oltretutto, e mi perdo la corsa, i salti, le cadute, la danza, il ritmo e la visione della postura eretta. Ci sono degli ostacoli che non oso ancora superare. Guardo in una direzione comoda mentre uno specchio velato di vapore continua ad infastidirmi ricordandomi cosa continuo a non voler vedere.
Sono ad un passo dalla destrutturazione fotografica; affrontare la visione sintetica e un po' puttana di una passione che ho eretto a difesa e virtù di un ego da confortare giornalmente in ragione di una onestà tagliente e diretta eppure liberalizzante.
Presto dovrò fare i conti con questo dubbio: continuare a fingere che la fotografia mi porterà nella direzione di scelte consapevoli incluso l'edonismo artistico, oppure essere sul percorso senza morbosamente ripetermi che figata che è la fotografia!
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