giovedì 2 maggio 2013

il capezzolo duro


Il passaggio dalla pubertà all'adolescenza fu segnato per me da episodi di trasformazione del mio corpo che mi turbarono e intrigarono allo stesso tempo.
Il più clamoroso fu quello che io chiamai "la pallina dura".
Di punto in bianco mi ritrovai sotto la pelle, zona capezzoli, un qualcosa che io percepivo tondo come una pallina e dalla consistenza durissima. La cosa mi fece sorridere per qualche secondo, un'anomalia divertente quella mattina era gradita. Salvo ricredermi poco dopo, quando presi a sfregare tra pollice e indice quel brufolo gigante. Provai un dolore acuto, nuovissimo. Di riflesso ritrassi la mano come scottato o preda di una  breve scarica elettrica. Prova del nove, tanto per conferma. Ancora dolore. Ma che c…?
A farla breve, per qualche settimana mi sono arrovellato su quanto stava accadendo, partito prima sul lato sinistro e poi su entrambi i capezzoli. A riferirlo ai miei neanche a parlarne: vergogna, imbarazzo, paura, stupidità. L'elenco completo! Mi feci coraggio e lo confidai al mio amico di banco. Mi rincuorai sapendolo vittima della stessa malattia senza nome che da qualche giorno l'aveva colpito. Ne parlammo a lungo e trovammo da soli le risposte giuste. Anche quella vera.

Per quello che sto vivendo, come trasformazione, metamorfosi di vedute e argomenti, passaggio da un ciclo di esperienza fotografica all'altra, non ci sono "palline" di riferimento. Ma sta accadendo. Si è concluso un ciclo. Fino allo scorso anno ero attratto da progetti fotografici e realizzabili in un determinato modo. Niente di più attuabile ora se non condizionati dalle nuove risposte. Come per il periodo "pallina", la faccenda ha di che preoccuparmi per il timore di perdere delle idee che si manifestano ancora come "un bel progetto", e dall'altra mi eccita per questa nuova capacità di percezione della materia fotografica.
L'oggetto, o il soggetto, da inseguire resta immutato, ma il rito di fare l'amore di un ragazzino non è uguale a rito di un quarantenne (quasi! ndb): al primo di carezze, sguardi, intesa, pause non frega nulla; il secondo sa che la miglior performance è dedicarsi completamente al piacere della compagnia. Il primo impugna, mira, aspetta e spara. Il secondo incontra, osserva, si commuove e lascia che la fotografia lo avvolga.

domenica 28 aprile 2013

lo spazio bianco

Mi piacciono i cambiamenti, i traslochi, ridisporre i mobili in nuove versioni, le trasformazioni in genere. Mi piace! Ritengo che sia per due ragioni: la prima per un fatto para-pratico, mi da la possibilità di nuove vedute, mi incuriosisce e stimola. Per conseguenza, la seconda ragione, sta nel non farmi annoiare alla ripetivitá, a sbloccarmi dai miei stati pigri e muovermi in direzione del nuovo e diverso. Avevo deciso lo scorso anno che il prossimo passo sulla trasformazione sarebbe stato strutturale: un nuovo studio. Per i primi tre mesi mi sono diviso tra ricerca, sistemazione e allestimento del nuovo spazio. Da una settimana sono qui, e mi ci trovo davvero bene. Ha luce, molta, come io la voglio; ha spazio, che mi permette di lavorare comodamente. E funzione bene anche come piccola galleria, il che mi esalta come un criceto dopato. 
Seriamente: penso di ristabilire a breve una regolarità su questo blog. Più che altro per riportare cose che mi stanno interessando parecchio e che non mi dispiacerebbe approfondire. Intanto per chi voglia passare da me e disturbarmi mentre lavoro, o gli serve uno spazio-sala posa-esposizione, passate pure: ho bevande e chiacchiere da offrire da prendere vicino ai miei bonsai.

sabato 16 marzo 2013

demoni

e se tutto fosse esattamente il contrario di tutto ciò che hai creduto finora?
C'è da tremare. C'è da non riuscire più a muovere un passo e aspettare lì, dove sei, che qualcosa accada e ti riporti alla tua vecchia certezza, che le tuo ossa o le membra in qualche modo escano da quel torpore e si decidano a spostarti da quell'improvviso niente.
La forma non cambia. La sostanza si!
Ho visto scene da fotografare centinaia di volte e poi me ne sono stufato. Ho cercato nel mio paese la migliore composizione e mi sono annoiato. Ho concentrato tempo e investimenti sulla ricerca di uno stile: coerenza mai raggiunta. Ho progettato foto e idee dall'alto contenuto "artistico" salvo affondare ripetutamente nell'autofallimento - o autocommiserazione?
Tutto quello che mi riguarda di fotografia - conoscenze, letture, incontri, lavoro, entusiasmi, rinunce - interagisce giornalmente con il mio fisico. Impugno la macchina e i miei muscoli si attivano in un modo che solo quel gesto permette. La mia concentrazione durante lo scatto mi provoca rughe alla fronte e in mezzo agli occhi; assumo, pur non avendone sempre la certezza, delle vere facce da cazzo. Però, in quella porzione di tempo io sto fotografando. Sto in sostanza usando me stesso come mezzo per ottenere qualcosa che in teoria potrebbe sopravvivere alle mie rughe, alle mie facce, al mio corpo in tensione. Quel medium rigorosamente descritto.
E la forma sta tutta lì, in quel mio corpo, mutato e mutabile ma sempre riconoscibile come il mio.
La sostanza invece si evolve e cambia in tutte le mie cre-azioni. Non fotografo per diletto, non per lavoro, non per vincere concorsi o produrre arte e millantarmene. Fotografo per scacciare demoni. Si chiamano paura, mediocrità, riconoscimento, soddisfazione, autocentrismo, superbia e gloria.

...

giovedì 24 gennaio 2013

l'unicità

"Ci sono cose che nessuno vedrebbe se io non le fotografassi". E' una frase della Arbus, la trovo esatta, inopinabile. L'unicità con cui ognuno di noi posa lo sguardo sulle cose, sulle persone, sulla vita, ci rende testimoni prima e portatori dopo di immense biblioteche di immagini. Il database mondiale delle foto conta dei numeri pazzeschi e la stima di produzione annuale è scellerata. In un periodo lontano, quando internet, le nanotecnologie, le macchine ibride erano ancora il futuro, ero ragazzino e sognavo all'idea di una macchina fotografica al posto del mio occhio che registrasse tutto al mio comando. Molti anni dopo, in un numero del 2005 di AriaMagazine, leggo del progetto MyLifeBits. Quando è avvenuto il passaggio al futuro? Col salto nel nuovo millennio? Mi sono messo questa data convenzionale, per comodità personale. Quello che nell'ultimo periodo mi porta a riflettere su vicende personali e successivamente a canalizzare in pensieri fotografici l'argomento è: l'unicità. Cos'è unico? Un momento? una scena? un gesto? io? tu? Cosa?
Ho fatto il ritratto ad una persona, solo pochi giorni fa. La foto è stata la digestione normale di un pomeriggio di conoscenza; ho tirato fuori la macchina con la stessa abitudine del fumatore che si accende il vizio dopo un'ottimo pasto. Pochi click. Cosa è venuto fuori è silenzioso, pieno di grana e di luce al tugsteno. Tra le mie peggiori. Dall'altra parte invece mi arriva il sussurro di un "sono stupende". Cosa ho messo a fuoco? cos'ho inquadrato? Cosa hanno visto i miei occhi in quella porzione u-ni-ca di tempo? Vedo gli altri con la parte migliore di me ma poi li fotografo con la mia parte peggiore. E tuttavia è una foto, che nessuno vedrebbe se io non la facessi. Io sono unico, complessamente unico. Ossessionato dal ritratto.
C'è verità nel mio gesto, in ciò che dico e faccio, nel fotografare, ma la foto come materia finale non può essere verità, l'unica verità! Il cliché speculativo di alcuni miei pensieri continua a tormentarmi, senza soluzione. Ciò che ancora non risolvo non è più inerente le mie capacità, ma riguarda la sopravvivenza dell'oggetto foto. Ci sono cose che nessuno vedrebbe se io non le fotografassi, ma una volta fotograte, sono atti unici che meritano di vivere in una foto?

sabato 29 dicembre 2012

lannosabbatico

Se lo avessi deciso io, non lo avrei mai fatto, non ci sarei riuscito. Perché a stare fermo a prendermi pause non ne sono capace. Ci si è messa la vita allora, con il suo indiscutibile, efficace cinismo.
Il 2012 risulta essere davvero per me un anno sabbatico. Doveva finire il mondo qualche giorno fa: che delusione! la stupidità intendo, i maya invece hanno la mia ammirazione.
Torno a sedermi al monitor dopo tanto. Per scrivere.
Ho fatto ordine agli archivi nei giorni scorsi. Un quantità di file spropositata che sulle prime mi ha spiazzato, finendo poi col disturbarmi come disturba la troppa polvere accumulata. Ecco, in fotografia, ho accumulato polvere. Sarà che per formattare il mac ho dovuto aprire ogni cassetto al suo interno per controllare ed evitare inutili perdite, ma l'inutile ha superato le mie aspettative. Tuttavia ho fatto ordine, mentre sta per scadere quest' anno che mi ha mostrato quanto sia pigro, vulnerabile, emotivo, creatura, corazzato, spaventato, volubile, schivo, stupido, arrabbiato ma anche riconoscente, testardo, fantasioso, capace, paziente, forte. Capisco che così me la canto da solo…

Ok, riportiamo le lancette sullo zero e ripartiamo. Queste lunghe pause lontano da internet sono state utili. All'inizio ero spaventato, devo riconoscerlo. Temevo di perdermi o di perdere cose interessanti, percepire un mondo che avanza senza me che sto fermo non è piacevole come sensazione. Invece internet sta sempre lì, i suoi contenuti anche, semmai qualcosa in più da dire la avrei io ora; che possa piacere o meno, c'è una voglia nuova di comunicare in me, un voler essere diretto e schietto.
Poiché le cose logore e inutili me le voglio lasciare dietro, mi tolgo ora un sassolino dalla scarpa e non ne parlo più.
Nel mio caro paese che vuole vestirsi da città, ma resta sempre un paese, c'è una categoria di lavoratori che fa fatica a distinguere il lavoro da artigiano da quello commerciale, e temo non sappia affatto cosa si intende per libero professionista. Per questi lavoratori, non avere un negozio aperto al pubblico dove, dico per esempio - ma solo per esempio - si vendono compatte digitali o si fanno stampe sui puzzle, ma si fanno - per esempio - fotografie su commissione, equivale a lavorare a nero. Non è ben chiara la distinzione fra negozio e studio. Tanto non lo capiscono che si intestardiscono a sprecare tempo su come ledere il lavoro o l'immagine del libero professionista piuttosto che investire su se stessi e la propria attività commerciale. Provo una profonda tristezza. Sincera. Il mondo del lavoro è cambiato. Ce l'hanno cambiato! e bisogna adattarsi, inventarsi, unirsi, formarsi. E' in atto una selezione naturale e il tempo darà ragione dei sopravvissuti. Io, che possa rientrare fra i (fotografi) sopravvissuti o meno, continuerò a fotografare. Insomma, ho bisogno di scrivere in qualche modo!

Ad arrivederci, sopravvisuti!

domenica 4 novembre 2012

Dove sei stato?


In letargo. Anzi! ho fatto il cambio della muta.
Quasi quattro mesi dall'ultimo post, ed in generale dalla vita da internetauta, mi hanno alleggerito. Non sono migliorato, tanto che al cambio del pelo, si sa, resta il vizio. Durante questa assenza mi sono preso delle distanze arbitrarie; ho trovato uno specchio capace di rimandarmi alcuni aspetti malsani di me e prenderne atto; mi sono assentato per ritrovare la musica nella sua efficacia, il che, per chi lo capisce, è dire carburante. Il senso piacevole di questo risveglio sta tutto nelle diverse vedute, un disegno geometrico bidimensionale che, ruotando, mi mostra ora un terzo asse su cui girare. L'approccio è cambiato e la nuova via sembra interessante. Mi sono riempito di cose da fare, non solo buoni propositi, ma compiti precisi e per il fisico e per lo spirito. A proposito di questo... contemporaneamente alla frequenza di un corso di yoga, le mie letture stanno slittando verso l' oriente, banale lo so, ma adesso riesco a digerirli meglio - e lo yoga sta oliando tutte quante le giunture.
Ho chiuso il progetto roomonezero. Un anno e una fatica che non ha parole. È strano come ci si sente svuotati negli istanti in cui percepisci che stai per finire un qualcosa che per molto tempo ti ha inseguito costantemente,  una idea, una foto, un desiderio di comunicazione. Un'ossessione. L'immagine in fondo è simbolica della stanchezza finale.
La pubblicazione sul sito è monca di tutti i testi che sto completando e spero richiedano meno tempo rispetto alle foto.
Se nei prossimi giorni mi assento nuovamente è perché sto vivendo.


giovedì 12 luglio 2012

digestione

Ho sempre avuto una digestione lenta. Solo da qualche anno, ponendo una senile attenzione all'alimentazione, ho posato lo sguardo, nonché il controllo, al mio corpo, che troppe volte strapazzo. Ma amo il cibo, reputo sacro l'atto del nutrirsi e in quei momenti in cui il semplice desiderio di mangiare qualcosa si trasforma in una voglia da gestante, indosso il personaggio delle mie letture preferite, mi rifugio in qualche posto dove poter ordinare del buon cibo, dico del buon cibo, e mi gusto il momento in cui, con gli occhi chiusi, porto alla bocca le bontà delle nostre e altrui tradizioni. Non manco di accompagnare, se posso, a del vino. Non sono un esperto, mi interessa meno esserlo; mi fido del mio palato e basta. Poi devo fare i conti con la digestione, alternando i "stavolta ho esagerato" alla rievocazione di ogni singolo sapore.
In ambiente fotografico ho una digestione più che mai lenta. Se potessi rigurgiterei ogni pensiero per riappropriarmene una seconda volta, triturarli finemente tra cuore e ragione come tra molari. Invece elaboro, con lentezza.
A Corigliano ho ritrovato volti noti, per un po' il tempo si è piegato su se stesso, riducendo di molto l'anno che ci separa dal nostro ultimo incontro, almeno io ho avvertito questo. A quei volti ne ho aggiunti di nuovi. Ho atteso un solo turno prima di sedermi al tavolo di Denis Curti. Nella cartella che avevo portato c'erano alcune immagini prodotte più di dieci mesi prima e mai mostrate a chicchessia. Dopo di lui altri hanno visto quelle foto, alcuni pareri sono stati deludenti, poco chiari, troppa cura diplomatica nel non ferire. Mi arriva anche un "mi viene la pelle d'oca a ripensare alle tue foto" che è stato qualcosa di inaspettato: che una mia foto faccia reagire la chimica di un corpo è meraviglioso, direi. Ho trascorso una bellissima giornata, molte delle parole dette le sto ancora digerendo e si stanno trasformando in zuccheri, proteine, sali minerali. Ho visto gente sconosciuta portare foto incredibili e fotografi incredibili che non mi hanno procurato brividi. Le stanze del Castello Ducale, le mostre allestite. Le birre con i ragazzi al bar. Il rito delle foto di gruppo. Gli imbocca al lupo e teniamoci in contatto. Il caldo. Tutto di quella giornata ha un sapore.

venerdì 29 giugno 2012

pulse

Aleggia un'atmosfera delicata intorno a me. Da qualche giorno.
Un anno fa piangevo lacrime graffianti, a ricordarmi quanto sangue avevo sotto la cute e che fosse ora che mi accorgessi di quel pulsare estremamente fragile e vitale. Domani torno in quel luogo, a salutare volti noti e ad incontrarne nuovi. A proposito dei nuovi, spero di avere il confronto con chi ho richiesto legga il mio portfolio. Ogni volta mi maledico per non aver prodotto abbastanza, salvo poi scoprire che fatico di più a selezionare e scartare. Porto con me domani delle immagini ancora inedite, mai mostrate a nessuno. Sono nate immediatamente dopo il postbenedusi, d'impeto, come sotto effetto sbornia, fuori controllo. Ho scattato fin quando non sono tornato lucido, fino a quando non sono tornato a vigilare su me stesso. Da sveglio ho provato vergogna per quelle immagini. Le temevo per i possibili strati di realtà che potevano generare, le incomprensioni o le altrettante interpretazioni. Una foto cos'è? Il pensiero razionale vuole che esista una sola realtà, matematica, quello umanistico invece lascia all'osservatore la libertà di costruirsene una propria sull'alfabeto culturale che possiede. A chi appartiene allora la foto? Al suo autore protagonista che si rivela vero (forse), nudo, unico proprietario di quell'identità, o al suo fruitore spettatore che, prendendone coscienza, come dichiara Francesca, non riesce più a viverne senza? Non so decidere.
La fase è delicata anche per un altro motivo. Ho messo a fuoco un progetto. Temo, nell'euforia del momento, di precipitare per troppa fretta, per esaltazione. L'ho commissionato a me stesso, non mi importa di mostrarlo e se accadrà sarà per conseguenza collaterale. Sento il bisogno di essere lasciato in pace, evitare di dover dar conto, fare in modo che il fiore si schiuda lontano dalle gelate. Ho la tremenda sensazione che se voglio fare fotografia devo smettere di fare il fotografo.

mercoledì 27 giugno 2012

sto leggendo Murakami ma è una coincidenza

C'è una playlist dei luoghi che desidero visitare e non sentirò di aver vissuto appieno se prima non ci sarò stato. In pole costante l'Australia, a seguire il Giappone. Quest'ultimo ogni volta che entra nel mio raggio di ascolto mi procura un fremito lungo tutto il corpo. Ho letto manga per parecchi anni, almeno un paio di serie della mia collezione li reputo dei capolavori, forse proprio durante queste letture mi sono imbattuto nella definizione di "Tokio: il caos organizzato". I motivi di questo mio desiderio di andare dall'altra parte del pianeta possono apparire superficiali rispetto ad un sano interesse culturale e storico, ma ad oggi le tracce di quella curiosità prima infantile, poi adolescenziale, sono ancora la componente principale che mi spinge a sognarli.  Il Giappone che cambiava è il titolo di una mostra che ha da subito innescato la mia attenzione. Esposta alla Galleria 70, nei pressi di porta nuova a Milano, oltre a godere di immagini evocative ho potuto ascoltare e sorprendermi del pensiero del suo gallerista.  Era mezzogiorno quando sono entrato, alle due avevo un treno per Torino ma l'ho perso perché nell'ipnosi uditiva ho dimenticato qualsiasi controllo sul tempo. Difronte a gente che snocciola con fare calmo e ovvio l'universo dell'arte io resto incantato. In due ore e mezzo ho faticato ad inserirmi nel flusso dei discorsi del padrone di casa, poche frasi ermetiche, per dare l'idea che ero vivo, e spero di non aver detto scemenze. Il dato sorprendente è che questo incontro arriva in un periodo in cui sento "arte" ovunque mi giro. Ho delineato un percorso progettuale, ne sono preso, tanto che interferisce nelle faccende lavorative e sulla concentrazione. Poiché sto indagando sui vari aspetti intrinseci di questo progetto è stata una rivelazione scoprire dal mio interlocutore, appassionato di cultura africana, una variante che non avevo minimamente considerato. Da un certo punto in poi è stata una violenza perché avevo desiderio di continuare ad ascoltare tutto quel sapere e contemporaneamente viaggiavo sui miei binari fotografici. Ho salutato e ringraziato ripetutamente prima di uscire, ironicamente ho anche avvisato che al prossimo incontro l'avrei registrato per esigenze di memoria, infatti appena ho messo il naso fuori ho annotato su Ipad quanto più possibile di quello che avevo sentito. Non ho avuto tempo per riordinare le note di quel giorno, ancora una volta un incontro inaspettato mi ha aggrovigliato le sinapsi.  "Il Giappone che cambiava" di Mario De Biasi, alla Galleria 70 - corso di Porta Nuova 36/38 Milano, curatore Eugenio Bitetti

venerdì 22 giugno 2012

reed mountain

I primi sei mesi di questo anno sono passati come se avessi attraversato un sentiero roccioso con pendenza oltre il cinquanta per cento. Il parallelismo non è solo superficiale. Spesso mi è capitato di vivere delle vacanze estive facendo escursioni in montagna. Una delle prerogative  in questi caso è munirsi di scarpe comode e  pronte a resistere a dure prove, poi bisogna avere la giusta divisa, l'abbigliamento indicato che permetta di stare comodo sia sotto il sole cocente che  al fresco delle zone fitte di vegetazione. Delle escursioni non bisogna trascurare la fatica delle salite meno che mai la trappola delle discese, in queste, all'inizio, si tende a lasciarsi andare al vantaggio della pendenza favorevole per scoprire dopo qualche decina di tornanti che si è caricato troppo sulle ginocchia e se non si è fatto qualche danno a tendini e muscoli si è fortunati. Ma la prima esperienza che ho fatto mi ha insegnato il dato più importante dell'escursionismo: lasciare ciò che non serve. Il mio primo zaino era pieno dellla sopravvivenza per una settimana, o lo stereotipo della valigia di una donna pronta alla vacanza. Camminare per ore con l'abbondanza di elementi che presi singolarmente avevano una loro logica di utilità,  in aggiunta a macchina fotografica, treppiedi e un paio di ottiche (dove non brillo di acume recupero in stoltezza), non fu una brillante idea. La mia spalla mi maledì. Il secondo giorno ho alleggerito, ma senza convinzione e ho impiegato una settimana per ottenere la giusta misura di zavorra.  Questi sei mesi mi ricordano quelle prime uscite. A parte tutta la pulizia di pensieri e dinamiche nel contesto fotografico ho preso ad alleggerirmi anche di alcuni reed presenti nel mio elenco, quelli che sostanzialmente non mi servono. C' è stato un periodo, fino a poco più di un anno fa, dove vivevo google reader come il cartellino da timbrare prima di iniziare la giornata. Passavo parecchio tempo su blog interessanti ma di molti non ne avevo bisogno, come se avessi messo in zaino il fornellino da campo in una escursione che mi avrebbe riportato a casa dopo sole due ore. Quando dico che non ne avevo bisogno non è per superbia. Semplicemente mi stavano portando da un'altra parte, in alcuni casi mi distraevano del tutto. Essermi preso un lungo periodo di distacco forzato da queste letture mi è servito. Non controllo più quotidianamente i reed, mi ritaglio lo spazio appropriato, come dire: stasera vado al cinema, vado a salutare un amica, oggi mi leggo i reed. La rosa di quelli che continuano ad essermi affezionati conta poche unità adesso, il resto sta lì e basta, forse solo a ricordarmi che sarebbe meglio o sostituirli o metterli via del tutto.  Comunque oggi è una bella giornata, ufficialmente siamo in estate, e ho messo nella sacca ciò che mi serve per oggi. Esco a fare due passi sul reed mountain.