C'è una playlist dei luoghi che desidero visitare e non sentirò di aver vissuto appieno se prima non ci sarò stato. In pole costante l'Australia, a seguire il Giappone. Quest'ultimo ogni volta che entra nel mio raggio di ascolto mi procura un fremito lungo tutto il corpo. Ho letto manga per parecchi anni, almeno un paio di serie della mia collezione li reputo dei capolavori, forse proprio durante queste letture mi sono imbattuto nella definizione di "Tokio: il caos organizzato". I motivi di questo mio desiderio di andare dall'altra parte del pianeta possono apparire superficiali rispetto ad un sano interesse culturale e storico, ma ad oggi le tracce di quella curiosità prima infantile, poi adolescenziale, sono ancora la componente principale che mi spinge a sognarli.
Il Giappone che cambiava è il titolo di una mostra che ha da subito innescato la mia attenzione. Esposta alla Galleria 70, nei pressi di porta nuova a Milano, oltre a godere di immagini evocative ho potuto ascoltare e sorprendermi del pensiero del suo gallerista. Era mezzogiorno quando sono entrato, alle due avevo un treno per Torino ma l'ho perso perché nell'ipnosi uditiva ho dimenticato qualsiasi controllo sul tempo. Difronte a gente che snocciola con fare calmo e ovvio l'universo dell'arte io resto incantato. In due ore e mezzo ho faticato ad inserirmi nel flusso dei discorsi del padrone di casa, poche frasi ermetiche, per dare l'idea che ero vivo, e spero di non aver detto scemenze. Il dato sorprendente è che questo incontro arriva in un periodo in cui sento "arte" ovunque mi giro. Ho delineato un percorso progettuale, ne sono preso, tanto che interferisce nelle faccende lavorative e sulla concentrazione. Poiché sto indagando sui vari aspetti intrinseci di questo progetto è stata una rivelazione scoprire dal mio interlocutore, appassionato di cultura africana, una variante che non avevo minimamente considerato. Da un certo punto in poi è stata una violenza perché avevo desiderio di continuare ad ascoltare tutto quel sapere e contemporaneamente viaggiavo sui miei binari fotografici. Ho salutato e ringraziato ripetutamente prima di uscire, ironicamente ho anche avvisato che al prossimo incontro l'avrei registrato per esigenze di memoria, infatti appena ho messo il naso fuori ho annotato su Ipad quanto più possibile di quello che avevo sentito. Non ho avuto tempo per riordinare le note di quel giorno, ancora una volta un incontro inaspettato mi ha aggrovigliato le sinapsi.
"Il Giappone che cambiava" di Mario De Biasi, alla
Galleria 70 - corso di Porta Nuova 36/38 Milano,
curatore Eugenio Bitetti
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