giovedì 30 maggio 2013

il fine e il mezzo

Forse ne avevo già parlato, solo che molte cose non mi erano chiare o non ci arrivavo. Ai piccoli non puoi dire tutto e pretendere che capiscano; se anche provi a usare parole semplici, quelli potrebbero restituirti una faccia d'incomprensione totale.
Il domanda è: la fotografia è (per voi, per me) un fine o un mezzo?
Credere che la mia fosse il mezzo per dire qualcosa di me mi ha accompagnato fino all'altro ieri. La faccenda era, o sembrava, molto semplice: voglio comunicare questo, raccontare quest'altro e, al limite, dimostrare anche questo. Bene. Ci sta, se si è convinti. Solo che a me i dubbi persistono se l' istinto mi tamburella fastidiosamente a suggerire che non deve essere del tutto così. E io del mio istinto mi fido. Scendo nel pratico, perché sono ancora confuso e devo fare degli esempi, e magari ricevere risposte di aiuto.
Qualche settimana fa Tina M. mi ha coinvolto in un progetto nato qualche anno fa e che si ripete annualmente. Un gruppo di circa cinquanta persone che lavorano per un istituto bancario, decidono di mettere a disposizione la loro passione artistica, musicale, recitativa, danzante, per allestire uno spettacolo imponente per raccogliere fondi. Va bene può sembrare la solita operazione di "mi metto a posto la coscienza e faccio beneficenza", ma non è questo che mi preme riportare qui. Quest'anno i fondi sono destinati a  costruire un nuovo reparto di oncologia in un ospedale di Bari. Grazie a Tina, al suo approccio e alla sua rete di conoscenze - è impiegata per l'istituto e fa foto eccezionali, ha una progettualità fotografica intelligente e invidiabile  - ,  siamo stati entrambi ricevuti per documentare il clima di un reparto oncologico durante le sedute di chemioterapia. Ho vissuto personalmente un approccio emotivo simile a quello provato entrando nel carcere di Trani per documentare un progetto di teatro, questa volta però la sensazione di disagio era fortemente amplificata. Abbiamo deciso di evitare più possibile la patetica registrazione della sofferenza e concentrarci sulla dignità e umanizzazione del reparto. Le foto che abbiamo scattato, diverse per visione e approcci, con l'intento iniziale di essere proiettate per il pubblico dello spettacolo, sono diventate un progetto definito: Hopelogia. Le abbiamo selezionate e racchiuse in una dozzina di dittici, sorprendentemente affini e pur indistinguibili per mano. Tina conosce molto bene il clima degli ospedali e la sua innata sensibilità femminile, la sua visione femminile, mi ha obbligato a riconsiderare e rimettere in gioco quei dubbi già persistenti. Non stavo più parlando di me, delle mie fisime mentali, non era più un rendere pubblico, con la fotografia, uno stato privato, il mio. Quello che si era fatto era riportare per immagini fotografiche una realtà a molti sconosciuta. La nostra scelta, la nostra forzatura - e sono d'accordo - sta nelle inquadrature, negli accostamenti dei dittici, nella sottolineatura della dignità e della pazienza e del silenzio che ci premeva evidenziare. Forse per la prima volta mi sono sentito esclusivamente, serenamente una parte integrante del mezzo fotografico. Tutta la mia produzione fino a ieri invece mi rende protagonista, io padrone del mezzo.

Senza scomodare i papà e i maestri blasonati del reportage, ieri mi sono imbattuto in un libro: Ermanno Rea "1960 io reporter". Ermanno Rea io non lo conosco ma il suo libro presto lo compro. Mi è bastato sfogliare qualche pagina, ma soprattutto leggere qualche passo per capire il senso del suo lavoro. E tutto questo è bellissimo. Quando ad un certo punto ti svincoli da te stesso e diventi un ingranaggio fondamentale di quello che il mondo potrebbe conoscere ti senti libero. Ermanno Rea scrive che "la Leica mi ha salvato la vita" (la macchina non l'azienda), ciò mi fa pensare che la libertà acquisita con il sentimento del raccontare e parlare dello sconosciuto fa anche bene alla sopravvivenza. Qualche settimana fa, nelle Lectio Magistralis che sta organizzando la AFIP, lo diceva Oliviero Toscani: "imprigionatevi in un progetto, non c'è nulla di più bello e dal sapore di libertà che incatenarsi ad un progetto".  e sempre negli incontri del AFIP, L'oratoria di Giorgio Lotti mi ha commosso per il suo eccesso di umiltà.
Dire di noi, scrivere di noi, fotografare di noi è stupendo se ci può far guarire, crescere, rafforzare. Ma una volta fuori da questo abbiamo l'obbligo di trasformarci: non siamo più il fine del nostro agire. Siamo il mezzo.

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