martedì 19 giugno 2012

tempografia

Un mio cliente mi chiama qualche giorno fa chiedendomi di incontrarlo. Lo raggiungo prima  possibile perché con una sana educazione e un attento rispetto dei ruoli si è accattivato la mia stima. Nei suoi uffici mi mette a conoscenza di una vicenda che gli provoca un disagio di cui liberarsi, per quanto possibile. Una persona a lui cara, che vive al di là dell'Atlantico, ha visto cancellarsi completamente la sua abitazione. Tutto è andato distrutto e con esso la perdita del suo contenuto. Nell'elenco delle perdite anche le foto ricordo,  le tracce che testimoniano la presenza di una vita e che diventano ancore e per la memoria e per il cuore. Il mio cliente mi ha chiesto di andare a recuperare, rifotografandole, le uniche immagini dei familiari di questa persona che sono in una casa e su una lapide in un cimitero di un paese del centro Italia, per poi spedirle. Pochi frammenti rispetto all'archivio originario. Fotografie, finché le stampavamo ci disperavamo per i costi e l'ingombro delle scatole dove tenerle. Poi il pixel ci ha liberato dell'uno e dell'altro. Dell'avvento del digitale non recrimino nulla, la sola cosa che faccio molta fatica ad accettare sono proprio le cornici digitale. Una foto (stampata) che sbianca dietro un vetro  mi da la percezione del tempo che passa, è una roccia che si trasforma all'erosione; se tutto rimane inalterato per magia dell'elettronica la faccenda si fa triste, come il desiderio di immortalità mentre il resto del mondo invecchia, o in scala ridotta come chi spera di congelarsi dietro la chirurgia plastica. La fotografia è tempo. E deve scorrere, seppure ad una velocità misurata diversamente. Le foto ricordo hanno un fascino incredibile su di me. Se mi capita di entrare in casa di qualcuno per la prima volta il mio sguardo è orientato alla mensola dei libri e alle foto ricordo. Mi piace supporre di poter capire chi sono i proprietari da cosa leggono e come tutelano la memoria. Che coincida con la realtà è irrilevante, è un gioco a immaginare. Così oggi mi ritrovo fra le mani volti, date, atmosfere, dediche, tutte racchiuse nei quattro lati di una foto. In un paese del centro Italia stamattina il tempo ha preso a scorrere diversamente per me. Mentre si muove crea scene, struttura dialoghi, colora. Una sorta di camera oscura dove si sviluppano storie ed invece di scrivere con la luce si scrive col tempo.

venerdì 15 giugno 2012

artisti veri (reloaded)

Prima della fotografia, prima del teatro e dei tentativi nella musica e come scrittore mi sono cimentato con il disegno. Era il '95. Esisteva in quel periodo una rivista, Boss, che presumo sia scomparsa dalle edicole. L'interno conteneva per buona parte foto delle più o meno vestite soubrette della televisione di quel periodo. Ma capitava anche di trovare dei buoni servizi di fotografi interessanti, lì ad esempio ho scoperto Bitesnich. Boss lo compravo per poter ricopiare con matite Faber-Castell quelle donne che incarnavano lo stereotipo della bellezza. Ed ho continuato fino a quando dal disegno ho avvertito lo stimolo della pittura. Oggi come allora mi rendo conto che nulla di quello che ricopiavo poteva in qualche misura considerarsi arte. C'è una variabile non da poco che colloca una persona tra l'essere o non essere artista, almeno per me: la ripetibilità. Quando disegnavo ero molto scrupoloso, i risultati anche lodevoli, ciononostante in corso d'opera temevo sempre di commettere qualche errore e la sola idea di dover rifare tutto era terribile perché non ne sarei stato capace, o meglio, avrei potuto disegnare qualcosa di nuovo e forse migliore ma mai la stessa cosa. Nelle letture dei maestri della pittura dal Medioevo ai tempi nostri  era ricorrente l'uso dei disegni preparatori o studi, cosa che io non facevo. Ritengo che un artista che voglia esprimere un concetto con il proprio mezzo sia capace di ripeterlo perché ce l'ha dentro. Recentemente ho visitato una mostra dove l'artista a disegnato su piastrelle di legno di varie dimensioni volti di donne, spesso lo stesso volto, con lo stesso taglio ed espressione ripetuto su formelle diverse. Mi è sorto il dubbio che fossero stampate per quanto incredibilmente simili. Sempre recentemente ho trovato in edicola una rivista sull'arte affatto male (daccordo l'ho acquistata perchè in retro copertina c'era una foto di Matteo Basilé il cui lavoro molto apprezzo, ma il contenuto è di ottima informazione). Sul numero acquistato c'è uno speciale sulla fotografia. Sarà che rincorro le mie frustranti progettualità e ambizioni ma temo di non essermi mai soffermato seriamente a riflettere sul mondo della fotografia artistica e concettuale. Dando per scontato che il seme della follia sia ben piantato in questi rappresentanti, trovo che la variabile della ripetività sia fattore imprescindibile. L'istantanea da word press photo o  il risultato accidentale di un errore fotografico non riesco ad attribuirli ad una mente artistica, seppure etichettati come foto di alto contenuto comunicativo. L'artista vero, torno a ripetere per me, ha un bisogno famelico di sapere prima di creare e creando assurge al ruolo di creatore, di essere capace cioè di possedere la propria opera. Mi fanno ridere perciò le espressioni come fotografia d'autore o il sempreverde nudo artistico, tanto amabilmente dichiarato dalle mie subrettine del '95 in epoca calendari quanto dalle nuove gossippare. Ma fatemi il piacere! Giotto disegnò un cerchio per dimostrare la sua abilità artistica: un solo segno, preciso. Lo possedeva.

giovedì 24 maggio 2012

amleto, ossia fanculo su chi sono o chi non sono

Facciamo che faccio una domanda:

Sapete chi siete?

Pensateci. A me han preso a girarmi le palle a forza di sentirmelo ripetere sia dall'esterno che dalla mia vocina interna del cazzo.
Io non lo so chi sono! Non ce l'ho la bussola.Viaggio alla cazzo di cane se lo volete sapere. Ho messo su una imbarcazione, l'ho incatramata bene per evitare falle e tiene perdio!
Non chiedetemi più chi sono e perché le mie foto non parlano di me. Li sto esplorando i come e i perché e fanno malissimo.
Ho trovato risposta ad una sola domanda finora:
Perché faccio foto?
Perché sono un voyeur, e dall'altra parte del buco vedo il mondo.

mercoledì 9 maggio 2012

gli artisti, veri

Ritengo che ci siano due differenti modi per essere artisti: il primo indaga, elabora, esprime la logica coerenza del proprio dire; l'altro è quello che madre natura gli ha dato un dono e produce meraviglie con la stessa noncuranza con cui ci si gratta un prurito. Tutto il resto è gente che ci prova.
Una delle disgrazie che può capitare a chi della fotografia dichiara di volerne fare qualcosa in più è diventare monotematico. I fotografi parlano solo di fotografia, così i musicisti parlano solo di musica, gli attori solo di recitazione, gli scrittori… e via dicendo. Ma l'artista fotografo, o l'artista scultore, o l'Artista,  è una persona interessante. Se lo incontri e appartiene alla categoria spettinatotrasandatosporco non gli daresti un centesimo di elemosina, poi inizia a parlare e vuoi sapere tutto quello che sa lui.
Sono circondato da troppi monotematici, quelli in erba spuntano ogni giorno e pretendono rapidi successi. Per fortuna mi capita di trovare o ritrovare quelle persone che ti fanno mentire sugli appuntamenti di lavoro e rimani lì ad ascoltarli, perché oggi ti sta parlando un artista.
Della chiacchierata che mi sono fatto oggi magari in futuro avrò degli sviluppi di cui parlare.
Invece vi racconto in breve di Vito Maiullari.
L'ho conosciuto personalmente lo scorso hanno. Un mese fa lo ritrovo a fine giornata su un set di lavoro. Mi chiede di fare delle foto per una sua mostra non prima di tenermi un ora a raccontarmi progetti, ricerche e pensieri. Lo ascolto evitando di rompere il suo flusso tanto da farmi dolere la spalla con gli zaini ancora da sistemare in macchina. Vito è uno scultore, principalmente. Quello che sa sulla pietra, specie quella della Murgia, è notevole. Fino al 23 maggio esporrà una parte delle sue opere a Roma. Per chi fosse in zona e ha la possibilità di incontrarlo, fatevi raccontare della pietra.

La forma del Tempo di Vito Maiullari
Ecos Gallery
via Giulia 81/a Roma
tel. 06 68803886

"La pecora fotovoltaica", una provocazione  di Vito Maiullari

pecore che fuggono alla vista del fotografo

Vito Maiullari all'interno di una sua opera

Vito Maiullari mentre "suona" la pietra

martedì 1 maggio 2012

computer, definisci Fotografia

Dieci giorni fa un gruppo di otto persone ha preferito ascoltarmi per una giornata piuttosto che trascorrere una domenica all'aperto, data la piacevole temperatura estiva. In mezzo da allora c'è stato del lavoro da fare e quindi ne parlo solo adesso.
Mi fu chiesto tempo addietro di tenere delle lezioni di fotografia. Concordammo, prima di tutto, che non si sarebbe mai chiamato "workshop", e che non si aspettassero da me un lezionario tecnico per poter fare foto perfette.
Con l'arrivo della primavera son tornati i fiori e i corsi base di fotografia. Ma onestamente ha ancora senso parlare di corso base al 2012? Costruiscono macchine che non ti devi preoccupare di nulla se non di avere un indice funzionante, e se non bastasse, sul web tutto ciò che di base occorre per dare un senso a quelle icone stampate sulle suddette macchine prodigio. Io no, non sono il corso base. Arrivo molto prima, quando ancora non c'è nulla e ti guardo negli occhi, ti fisso, in silenzio; aspetto un cedimento, una distrazione o anche una chiara volontà per domandare ma perché vuoi fotografare? Per me, che scrivo, è una faccenda maledettamente seria la fotografia. Con me si viaggia lentissimo e su strade rovinate. Qualche giorno prima feci recapitare al gruppo il domandario. Domande di cui io non chiedevo alcuna risposta bensì che si interrogassero su apparenti banalità. Continuo a dire che non sono un insegnante, i fotografi non possono insegnare fotografia. Posso parlare di me e della mia fotografia, da cosa è alimentata e spesso è anche un casino per come la sua essenza sia incatramata di elementi che non mi appartengono. Quello che vale per me non può funzionare per un altro, o magari si ma intanto si sta perdendo qualcosa di straordinario e cioè la sua visione di dire in immagini come vede e sente il mondo. Ad è quello che chiedo: di trovare il coraggio di dichiarare le proprie ossessioni e desideri trasformati in fotografia. Il mondo non ha bisogno di nuovi fotografi e cloni di fotografie, ha bisogno di essere sorpreso da prospettive non ancora battute. Se chiedessi al mondo di fotografare la stessa scena ci sarebbero potenzialmente quasi sette miliardi di immagini diverse, una l'impronta di ogni identità.


Il Domandario

1) Come spiegheresti a ET cos’ è una fotografia?
2) Cos’ è la “bellezza”?
3) Qual’ è la parola più bella che conosci?
4) Se ti fosse concesso un solo desiderio da esprimere, cosa chiederesti?
5) Se non fossi tu, chi vorresti essere?
6) Qual’ è il tuo pensiero ricorrente?
7) A un bambino che ti chiede a cosa serve una fotocamera cosa rispondi?
8) Quanti modi conosci per dire che apprezzi una cosa?
9) Qual’ è il luogo o la condizione che ti fa stare più bene?
10) Perché fai un corso di fotografia?

mercoledì 28 marzo 2012

svenire

Fai un viaggio, stai fuori per un po'. Intanto che sei lì ti chiedi come staranno procedendo le cose in continente. Sei davvero lontano, non c'è campo.

Mi ricordo la prima volta che sono svenuto; me le ricordo tutte! Ero in fila per pagare il ticket del sangue che mi avevano prelevato. 19 anni. Sono in piedi nella fila indiana che aspetto il mio turno e intorno ci sono voci, colori, ritmi, forme. E comincio a pensare, a pensare. Più penso più il cerchio dei pensieri si stringe, quello che c'è intorno esce di volta in volta dal cerchio fino a concludersi con il pensiero punto: oggi non torno in officina. Thumm.
Della botta che la mia testa prese cadendo ricordo il suono, non il dolore. Poi ci fu il ritorno, e il cerchio si riallarga. Quando realizzai cosa era accaduto, con ancora gente intorno che si prodigava a regalarmi caramelle zuccherate, osservai che questo è svenire? è bellissimo!
Svenire è mettere a fuoco l'essenziale. Il superfluo lentamente viene messo da parte, senza obbligo di rimorso, con garbo. L'attimo dell'ultimo pensiero cosciente che precede quel thumm già immerso nel nero (sebbene io non sia daccordo ad identificare di nero lo stato di perdita di coscienza, lo utilizzo qui quale ormai immaginario collettivo) per me è analogo all'istante che precede il clic di qualsiasi otturatore. Fuori da ogni crudeltà, penso che la gente dovrebbe svenire più spesso. I fotografi più che mai.
Quelli di una presunta categoria davanti ad una scena, un soggetto, una persona, che bramano di fotografare, cominciano a pensare e a pensare a tutte le stronzate sulle impostazioni, e la post, la carico su fb, e madonna che tette questa, chissà i commenti, questa fa portfolio, a Henri Cartier Bresson e altri dieci maestri della fotografia piace la foto che hai fatto (tanto per loro la Fotografia si riduce al solo Bresson), faccio una mostra a fine mese dal titolo minchia quanto sono bravo, e intanto premono, clic, e gli arriva una botta dietro la nuca che sì gli fa perdere i sensi, ma non è svenire. Svenire è bellissimo, l'ho detto. E' un pensiero solo che avvolge. Sei tu stesso il pensiero. Quando riemergi senti una calma e un senso di amore, di nuovo.
Riassaggi il mondo con lentezza (quanto hai ragione!), grato.
Così, mentre pensavo di essere stato fuori per un po', lontano da tutto, a chiedermi come procedessero le cose, lentamente il cerchio dei pensieri si stringeva. Domenica scorsa il pensiero punto.
Ho sorriso, prima di svenire.

mercoledì 14 marzo 2012

118

QUALCOSA D’ESTATE


Ad un tratto mi ricordai delle caramelle.

Mio padre le aveva prese dalla credenza - quella con i vetri colorati - la mattina, prima di uscire. Quell’azione così naturale, quella ricerca di qualcosa di semplice, come semplice è una caramella, mi colse di sorpresa. Era mio padre, in quel momento, ma perché pensare alle caramelle? Aveva ben altro per la testa. Poi una logica quasi meschina mi diede risposta e non fu affatto difficile lasciarlo andare via senza continuare in quella mia analisi: era mio padre, nel bene e nel male, nel tempo e per sempre.

Era accaduto qualche ora prima.

Non ero felice. Non ero triste. Neppure mi sentivo compreso in quella lista di stati d’animo che comprendono la malinconia, il rimpianto, la noia, la serenità o l’allegria. Svegliandomi, realizzai di essere infastidito da un pensiero scomodo e petulante. Era primo agosto: le vacanze non sarebbero durate molto ancora.

La voglia di alzarmi era scarsissima eppure l’odore del caffè proveniente dalla cucina mi fece capire che la colazione era pronta. Afferrai i pantaloni dalla sedia e l’infilai. La caffettiera era sul tavolo, come pure il pentolino del latte e il resto, ma la cucina era già bella e ordinata. Lei, mia madre, stava asciugando l’ultimo angolo del lavandino ed aveva una marcia in più rispetto al suo solito. Sedetti e versai nella tazza quella che sarebbe stata la colazione.

“Ha chiamato lo zio prima”, disse mamma laconica. Non si girò a guardarmi. Chiesi cosa volesse zio.

“Marina ci ha lasciato”, rispose. Fu fredda nel dirmelo. E paradossalmente quella freddezza mi scottò. I vapori del latte salirono al mio naso e mi riscaldarono il viso. Restai immobile, ad osservare il formarsi lento del velo di panna nella scodella. In quell’oblò pallido i miei ricordi di ragazzo disegnarono la faccia pulita di Marina. Ci ha lasciato, un modo meno diretto per dire è morta. È morta.

Pensai se per caso la circostanza richiedesse qualche frase da dire a mia madre, per associarmi ad un dolore che ancora non avevo imparato a conoscere. Poi capii che volevo starmene zitto. Volevo delle risposte senza domandare nulla. Sapere cosa sarebbe accaduto adesso. Sapere se la nonna era già stata avvisata. Sapere quale percentuale avrebbe avuto ora Marina nella mia vita. Ed ancora come comportarmi nelle restanti vacanze. Dovevo piangere se a un certo punto sentivo il desiderio incontrollabile di farlo?

Dopo quella notizia tutto si svolse come sempre in casa. Mi lavai la faccia ed i denti, indossai i vestiti comodi di tutti i giorni, accesi il computer, facendo zapping tra un gioco e l’altro e lasciando che il tempo scivolasse per inerzia. Erano davvero le stesse cose di sempre? Non mi ero lavato: dell’acqua mi era finita sulla faccia e non è la stessa cosa. Il computer non rappresentava quella mattina un’autentica distrazione. Mancava qualcosa. Una direzione? Mancava una lucida ripartizione dei pensieri, mancava la voglia, il registro di un ritmo, mancava una Marina, adesso.

…..

Ma se invece di mancare era qualcosa in più? Il silenzio inusuale di mia madre, ad esempio, la spirale dei ricordi su mia cugina, la maledetta voglia di prendermela con qualcuno. Tutto questo era naturale quanto legittimo. Si ma poi? Cosa c’è dopo uno sfogo di rabbia? Dopo un funerale? Dopo una cloaca di membra insanguinate chiamata ricordi? Dopo. Dopo un giorno? Due? Tre? Rimane tutto quello che è rimasto. Lo sapevo, intuito da ragazzino sveglio suppongo. Il segreto del vivere una vita serena sta tutto nel non rimanere quel pizzico di tempo in più a riflettere su se stessi nei casi della vita. Si perde l’attimo e tutto va avanti comunque. Mi venne questo pensiero quella mattina, di fronte ad un monitor e uno Shanghai che non riuscivo a risolvere.

Mio padre tornò verso mezzogiorno. Venne a cambiarsi la camicia e a lavarsi le mani e la faccia. Lo sentii entrare, ma se avevo avuto l’impulso ad alzarmi per andargli incontro, domandargli qualsiasi cosa, subitamente si spense e ricaddi sulla sedia. Li sentivo parlare. Mio padre raccontava di chi era arrivato a casa degli zii, i percorsi che aveva fatto per risolvere le faccende che sono di queste circostanze. Tutto questo non mi interessava. Finalmente riuscii ad andare in cucina. Loro erano là. Mio padre aveva finito di cambiarsi. Mi diede il buon giorno, come sempre. Non si accorse che l’abitudine va controllata. Sarà, ma risposi. Aveva voglia di parlarmi. Tutte le pieghe intorno ai suoi occhi si mossero e vidi che si tratteneva un male dentro. Desiderai gridargli di andarsene al più presto per non dovere sopportare di vederlo in quello stato. Mi accontentò. Si oscurò in corridoio aprendo la porta, poi rientrò in cucina prese le caramelle forti alla mente si girò e scomparve.

Ad un tratto mi ricordai delle caramelle.

L’aria viziata della stanza non riuscivo a sentirla: ero lì da molte ore. Sin dal primo pomeriggio avevamo abbandonato casa per sistemarci in quella degli zii e di Marina. Le famiglie si erano riunite. Fu la rimpatriata più triste che ricordavo, tanto diversa da quelle di quando ci si riuniva per i cenoni o per le ricorrenze allegre. Continuavo a pensare ai würstel, non quei piccoli ma quelli grandi, marchio indelebile di una Germania grassona, sempre presenti in queste occasioni, e l’insalata verde e riccia di quando in quelle sere c’erano i nonni e gli zii, i cugini e le sorelle e i fratelli, di me piccolissimo ancora, del non ne voglio più mamma per alzarmi da tavola e giocare con i miei cugini.

Un altro ricordo.

Fuori c’erano i lampioni accesi. Le ore in quella stanza avevano strisciato lentamente; non una dopo l’altra ma come se fosse stata un’unica ora dilatata. A quel punto della giornata la faccenda aveva preso una piega soporifera. Le chiacchiere dette a bassa voce da quei parenti che conoscevo e da altri mai visti prima erano lo specchio di una stanchezza controllata con sforzo. Non li ascoltavo, non ne avevo voglia, pure le parole entravano nella mia testa e quelle più grosse rimanevano intrappolate alla rete dei miei meccanismi di memoria come pesci. Tutte, però, erano immangiabili.

Ero stanco di stare seduto. Ero stanco di stare in piedi. La stanchezza ti stanca; voglio dire che ad un certo punto la incassi senza più reagire, ne fai una questione di sopravvivenza dove tu hai già perso da un sacco la tua chance di farcela.

Stavo appoggiato alla porta, adesso. In quell’improbabile sala d’attesa c’era la mia famiglia e due signore grasse e ben avviate ad essere vecchie. Più due tizi, un mio zio lontano e un anonimo. Otto in tutto con me. Una delle due donne aveva di che parlare su un certo Donato il salumiere. Si schiarì la voce e aprì una parentesi nel suo discorso per avvertire che era rimasta senza voce perché prima sono stata in corridoio e devo essermela presa proprio brutta quest’altra cosa ci voleva, bah!

Mio padre ne tirò fuori una. La caramella. Offrì la piccola scorta. Questa è l’ora dell’aperitivo, mi venne da pensare. Quando ne hai cinquanta di anni, come quelli di mio padre, lo sai quando è l’ora dell’aperitivo durante una veglia; hai imparato a dividere il tempo in parti più o meno uguali tra i momenti di tristezza e buonumore. Io non li avevo i suoi cinquanta e quindi non presi quelle sue maledette caramelle che ti fanno star bene la gola e ti rimettono apposto e ti danno il via per riprendere un’altra battuta su Donato il salumiere e ti portano tutto un altro cazzo di mondo e tempo che non è quello che è in quel momento.

Marina stava zitta. Non si muoveva. Aveva gli occhi nascosti dalle palpebre. Aveva due anni meno di me e fra qualche anno avrà un bel seno pure lei, se Dio vorrà, non quelle due piccole punte che adesso fanno anche una certa impressione. Me la stavo guardando per bene dopo essermene andato dalle caramelle. Era bella Marina. Tutte le bambine morte che non hanno avuto un incidente che le ha sfigurate sono belle. Lei sarebbe cresciuta nella mia testa. Le cugine si scopano per prime Avrebbe avuto un bel corpo. Le cugine si scopano per prime. Le areole scure come i suoi capelli. Le cugine si scopano per prime. Forse avrebbe avuto un fidanzato più in là. Le cugine si scopano per prime. Doveva portare poco trucco ma unghia smaltate. Le cugine si scopano per prime.

?!

Volevo darmi un cazzotto per lo schifo che stavo pensando. Associare la misericordia a certe visioni è come mettere il peperoncino su un’ostia consacrata. Ti verrebbe un erezione a pensare alla Madonna e questo è peccato mortale.

Piansero tutti quel giorno. Ognuno nelle necessarie dosi personali.

Io no.

Aspettai di vedere Marina negli ultimi istanti per farlo. Continuava a stare zitta e ferma e mi faceva una rabbia quella sua indifferenza al mio sfogo. La morte è solo dei vivi, pensai. Quelli non lo sanno mica che sono morti. Stanno lì e basta, o non stanno lì e basta. Da quest’altra parte si piange, si saluta, si mangiano caramelle, si parla di salumieri, si rievocano i würstel e tutto quanto il resto. Ai morti non è chiesto di piangere o ricordare. Noi restiamo e sono cazzi nostri adesso. Con tutto quello che ne consegue. Fra poco Marina sarebbe scomparsa e di me ancora non ne voleva sapere. Avrei potuto parlare tramite foto ricordo ma sai che bellezza, roba da barzelletta. Le cugine si scopano per prime. Questa volta lo pensai e lo desiderai assieme perché si può amare anche in modo non concettuale.

La chiusero.

La chiusero.

Un rituale di lacrime, che furono delle più pesanti che ricordassi, mi disubbidirono e tutti le videro. La colpa era di Marina. S’era organizzata il suo momento di gloria per deridermi al pubblico dei parenti. E non aveva mosso un dito. Fu che per dirgli Vaffanculo avrei dovuto gridare proprio forte. Tuttavia non mi avrebbe sentito. Marina. Però non era odio. Era una metafora per dire che Le cugine si scopano per prime ma ormai io sto qua e tu non stai da nessuna parte. Il tu sarei io.

Vaffanculo pensai e intanto volevo abbracciarla, stringerla.

Mi girai e trovai mio padre. Lui non era Marina ma era uguale se abbracciavo lui? Aveva l’alito di caramelle forti alla menta. Forse mi venne da ridere a quella scoperta. Una risata che sarebbe stata isterica a farla venire fuori.

Poi.

Poi rimase tutto quello che c’era da rimanere.

Le caramelle di mio padre poi.


P.s. La morte è solo dei vivi.



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Ieri ho riportato mio padre in ospedale. Solo da qualche giorno era a casa, dopo due mesi in clinica e un operazione al cuore. Ha preso a sputare sangue, di un rosso brillante, e non la smetteva più. Nelle ore trascorse al pronto soccorso, in attesa del ricovero, è riemerso il racconto sopra, scritto più di un decennio e mezzo fà e relativo ad un episodio realmente accadutomi. Mentre lo guardavo sul lettino, in una stanza illuminata a neon riempita di "urgenze", ho pensato due cose: non ho caramelle alla menta da offrire a questi signori. E non ti ho mai fatto il ritratto, papà.


giovedì 8 marzo 2012

limitless

Quando ho bisogno di spegnere il cervello, di distaccarmi dai toni seri e incravattati della vita, mi faccio di film che non richiedano alcuno sforzo per essere seguiti e possibilmente assemblati con una buona dose di effetti speciali. Quando li trovo ancora in programmazione al cinema poi è il massimo.
Non sono qui per fare un elenco di titoli e generi di pellicole che fanno la mia playlist, ma adesso so cosa non riuscivo ad afferrare nella girandola dei pensieri l'ultima volta che sono tornato da milano.
Limitless è un film che ho visto mesi fa, a casa. Uno sfigato, fallito, un perdente, prende un farmaco che gli apre il cervello, ossia lo fa funzionare al pieno delle sue capacità, e la sua vita fa un'iperbole. Si rende conto che è capace di cose straordinarie. Per suggerire allo spettatore lo stato di doping danno al protagonista una vista "grandangolo spinto". Guarda un po'!
Otto mesi fa, nelle vita reale e in tema di fare la fotografia, Settimio Benedusi ripeteva ad un gruppo annebbiato "se capite il senso, l'approccio a tutto questo, vi si apre un mondo davanti". Il mio ha iniziato a schiudersi allora pian piano. Non posso spiegarlo scrivendo, è necessario, per me, avere un interlocutore reale, che crei con me un dialogo e reagisca con me alle riflessioni. Qui non racconto cosa c'è nel farmaco, ma di quello che mi fa fare. Adesso mi sembra tutto più chiaro. La prima e unica volta che ho fatto un corso in piscina, poco più che adolescente, passavo le ore di lezioni a ingoiare acqua e a sfinirmi con bracciate inefficaci. Poi un giorno entro in acqua e finisco la vasca senza batter ciglio, come se ne fossi sempre stato capace. Mi sento così. Vedo un po' più grandangolo. Gli aspetti tecnici della fotografia che prima mi creavano tensione, si sono rivelati. Nuoto con maggiore fiducia. Mi viene da pensare a fare foto che prima non avrei immaginato o che ritenevo lontane dalla mia portata. Le progetto e ne conosco le difficoltà. Ma il dato più importante è che adesso, soltanto adesso, riesco a prevedere l'immagine che poi otterrò.
Come nel film, che ogni dato immagazzinato nella memoria diventa elemento facile da recuperare e sfruttare, davvero l'unico limite adesso e quello che, effettivamente, non conosco.

domenica 4 marzo 2012

no title

L'orologio del mac segna le 23.23
Non ho messo nessuna playlist. Silenzio.
Da due ore leggo i post che da giorni sono lì. Per un po' avevo scelto di evitarli.
Stasera mi sono preso i più gustosi; è capitato qualcuno insipido, così ho smesso per non rovinarmi il sapore.
I miei di post sono ancora sull'iPad. Li ho scritti in questi ultimi due mesi, molti nei fine settimana verso e di ritorno dalla kaverdash. Perché non lì pubblico? Perché adesso mi sembrano sgasati, sbiaditi. Sono nati in momenti precisi e quei momenti erano pieni di magia. Quel sapore non lo posso richiamare e l'operazione amarcord sa di medicina.
Per ora è così, domani avrò cambiato idea e tirerò fuori i conigli dal cilindro e i fazzoletti diverranno colombe.
Sono vivo, si sappia.

martedì 14 febbraio 2012

in vena di aforismi

Recenti preoccupazioni familiari mi hanno reso incapace di gestire con serenità un periodo che avevo programmato come piacevole e fruttuoso. Il perno della fotografia, che regola sia la serenità mentale come pure un fisico che con dignità procede verso i quaranta, è stato messo a dura prova. Da più di sei settimane sono una palla da flipper, dove ad ogni sponda invece di accumulare score mi ritrovo a pensare a fatti che non mi è possibile vivere adesso. Da un mese e mezzo la costante delle mie giornate è rimandare. Questa forzatura, vissuta male all'inizio, ora comincia a mostrarmi cose inaspettate.
Essendo completamente avvolto in un problema serio come la salute di mio padre, tutto ciò che reputavo primario ha preso una piega quasi ridicola. Fino al punto di stare ventiquattrore senza che l'elemento fotografia entri in circolo. Mentalmente ho scritto parecchi post in questo periodo, alcuni considerandoli interessanti ho dovuto fermarli su iPad come note da rivedere. Così senza deciderlo finisco a scrivere un e-diario pregno di ricordi che emergono da molto lontano, cronache di ore in sale di attesa, coincidenze prese al secondo per luoghi, mezzi e temperature diverse in poche ore. Ancora una volta nei momenti di maggior pressione trovo alcune delle risposte che chiedo. Su di me funziona il metodo dello scarto. Elimino, sbuccio, semplifico, pulisco, liberandomi di superfluo.
Due aspetti che fino anche ad un anno fa mi turbavano, come e cosa, ora riesco a percepirle molto più vicine di quanto non immaginassi. A spiegarlo non ne sarei capace, perciò le lascio dire a chi sapeva farlo senza essere necessariamente in vino veritas.

L'unica cosa che conta nella vita è saper godere realmente del proprio essere, noi cerchiamo facilitazioni ovunque solo perché non sappiamo cosa possediamo, usciamo fuori da noi solo perché non sappiamo cosa c'è dentro, così abbiamo un bel da montare sui trampoli, pure sui trampoli bisogna camminare con le nostra gambe, facciamo di tutto per salire più in alto ma anche sul trono più alto del mondo non siamo seduti che sul nostro culo.

e per Tina, che fa chiosa su quanto dettoci stamattina:

La sete di sapere è un dono ma è stato regalato alle persone non per farle sentire più comode ma per metterle sulla graticola dell'attesa e del dubbio.

Entrambe di Michel de Montaigne